Accademia CSKA – Lo sport come battaglia

Ogni guerra ha bisogno dei suoi soldati: talvolta sono poco più che ragazzini mandati allo sbaraglio; in altri casi, si tratta di professionisti istruiti e formati.

Durante la Guerra Fredda quest’élite includeva agenti dei servizi segreti, scienziati, ingegneri, astronauti, artisti e sportivi. Allora finisce che Gagarin e Armstrong si contendano lo scettro di pionieri del viaggio nell’Universo o che ai Giochi Olimpici ogni competizione sia l’occasione per misurare il successo di due ideologie contrapposte.

Lo sport come allegoria della battaglia è da sempre un’interpretazione che rimane sullo sfondo di ogni gara. A maggior ragione, quando il mondo è diviso in due blocchi politici contrapposti. Fra i progetti più ricercati da qualsiasi sistema di potere c’è senza dubbio quello di creare dei soldati perfetti, guerrieri in grado di ottenere il risultato in ogni circostanza. Nel momento in cui la guerra la combattono degli uomini di sport, il sistema tende a voler creare degli atleti invincibili, disciplinati, motivati a mettere il successo del gruppo davanti a tutto.

In Unione Sovietica, questo progetto prese la forma del CSKA, non quello calcistico e più recente, ma la squadra di hockey dell’Armata Rossa. La fonte da cui la stessa rappresentativa nazionale pescò le sue risorse per più di quarant’anni. Quello che può essere definito come un centro d’addestramento per soldati dell’hockey su ghiaccio.

Il CSKA, da Tarasov a Tikhonov

Il CSKA è stato il club rappresentativo dell’Armata Rossa. Alle origini della supremazia sovietica sui ghiacci c’è una figura precisa, un visionario, Anatoli Tarasov. Al termine della Seconda Guerra Mondiale gli venne affidato il compito di costruire da zero il programma di hockey dell’Unione Sovietica.

Dai settori giovanili fino alla nazionale, tutto doveva essere ridefinito. Tarasov, di fatto, stravolse la filosofia del gioco e implementò un nuovo modo di fare hockey. La forza fisica e la brutalità degli scontri vennero sostituiti con la velocità, la precisione tecnica e la conoscenza di schemi articolati in cui il singolo scompariva per far emergere l’organico. La ricetta per realizzare questo stravolgimento includeva l’ibridazione con altre discipline (il balletto e gli scacchi su tutti), allenamenti durissimi e rigore militare.

Transizioni rapide e una fitta rete di passaggi caratterizzavano la manovra offensiva, un primo germoglio di pressing sistematico bastava a tenere il disco lontano dalla propria porta. La linea difensiva pattinava all’indietro veloce tanto quanto gli avversari pattinavano in avanti. I portieri, fondamentali nell’hockey più che in altri sport, venivano quotidianamente massacrati per rendere inviolabile la porta. Per intenderci, Tarasov inventò il ‘guardiolismo’ sul ghiaccio senza avere altri mezzi oltre alle idee e il lavoro.

Dal 1946 al 1975, sotto la guida del suo padre fondatore, il CSKA vinse 19 titoli sovietici. Grazie al lavoro fatto con il suo gruppo, l’URSS si aggiudicò 9 World Championship e 3 medaglie d’oro olimpiche. Malgrado i successi, nel 1977, Tarasov venne esautorato dei vertici del politburo per motivi politici. Al suo posto fu scelto Viktor Tikhonov, uomo vicino ai vertici del Ministero.

Tikhonov ereditò una squadra pressoché imbattibile, ma che probabilmente si stava avvicinando al termine di un ciclo. Per tre anni non modificò praticamente nulla di quanto fatto dal suo predecessore. Sebbene i giocatori non avessero con lui lo stesso rapporto empatico che li legava a Tarasov, il CSKA – e di conseguenza la rappresentativa sovietica – continuarono la striscia di successi.

La svolta arrivò solo con l’ecatombe dei Giochi Olimpici Invernali del 1980 a Lake Placid, negli Stati Uniti. Quell’anno l’Armata Rossa, quella vera, aveva invaso l’Afghanistan. Jimmy Carter denunciò pubblicamente l’atto di aggressione verso un paese neutrale indicandolo come il tentativo deliberato di prendersi gioco del blocco atlantista.

La tensione internazionale toccò uno dei punti più alti della storia della Guerra Fredda. Le competizioni assunsero inevitabilmente quel carattere di scontro ideologico-politico di cui si è largamente scritto. In quasi tutte le discipline, Stati uniti e URSS combattevano l’una contro l’altra ancor prima che per raggiungere la medaglia d’oro. In quasi tutte le discipline appunto, escluso l’hockey. Lì, la formazione sovietica era l’unica favorita. I motivi erano due: prima di tutto, i giocatori riassumevano quanto di meglio si potesse trovare sui pattini; secondo, le rappresentative nazionali a ovest della Cortina erano composte da dilettanti come vuole la norma olimpica.

Non esistendo in via ufficiale lo sport professionistico in Unione Sovietica, la selezione nazionale poteva disporre dei campioni di mezzo continente. Nessuno avrebbe messo in discussione il dominio sovietico, nemmeno la Repubblica Ceca, unica squadra a contenderne la vittoria di tanto in tanto. Ciò che era impensabile si trasformò invece in realtà.

Gli Stati Uniti, una squadra di dilettanti mediocri, raggiunsero miracolosamente la finale. Dopo un primo tempo in cui l’URSS manifestò la sua strapotenza, le certezze sovietiche incominciarono pian piano a sgretolarsi e la formazione statunitense raggiunse una vittoria che ancora oggi è ricordata con il suggestivo ed esplicativo nome di ‘Miracle on Ice’.

Al rientro in patria, Tikhonov irrigidì ulteriormente il regime di allenamento e di vita dei giocatori del CSKA. Undici mesi all’anno in caserma; dai tre ai quattro allenamenti al giorno; permessi limitatissimi anche in caso di lutto familiare; ore libere inesistenti. Il politburo, lo staff del CSKA e la dirigenza stessa dell’Armata Rossa cercavano di plasmare l’atleta-soldato.

I risultati sportivi continuarono a essere positivi come in passato. La linea titolare del CSKA e dell’URSS dal 1980 al 1990 si aggiudicò nove titoli nazionali, cinque World Championship, due olimpiadi e la prestigiosa Canada Cup, una delle rare occasioni in cui la squadra sovietica si confrontò con i professionisti occidentali della NHL.

La disciplina Tikhonov pagava, il progetto del soldato-atleta dava risultati malgrado il gruppo provasse un umano disprezzo verso il proprio allenatore. Quell’umano disprezzo che non fu visto dai vertici del politburo, accecati dall’illusoria idea di aver finalmente raggiunto quel modello ideale di atleta e di uomo.

L’esodo e la fine del progetto atleta-soldato

In ‘Fuga per la vittoria’, i calciatori imprigionati nei campi di concentramento nazisti sfuggono dal loro destino approfittando dell’euforia della folla che sfonda i cancelli dello stadio al termine di una partita contro la rappresentativa del Terzo Reich.

L’esodo dei campioni del CSKA verso ovest fu meno spettacolare se vogliamo, ma segnò di fatto la stessa liberazione dalle catene di un regime totalizzante anche nell’idea di sport. Il progetto di trasformare gli atleti in soldati disciplinati e disposti a fare qualsiasi cosa crollò di fronte al più flebile spiraglio di libertà.

A metà degli anni ottanta, l’economia sovietica non riusciva più a reggere il confronto con il sistema capitalistico. Il centralismo economico aveva soffocato ogni iniziativa imprenditoriale e la produzione incominciò ad arrancare. Gorbacev, allora segretario del PCUS, annunciò quindi il piano di apertura dell’economia che oggi ricordiamo con il nome di Perestrojka. La liberalizzazione dell’impresa (seppur minima) favorì di fatto un’apertura verso il mercato occidentale.

Diversi giocatori della nazionale sovietica vennero avvicinati in quegli anni dai manager NHL per defezionare. D’altro canto, parte del politburo incominciò ad accarezzare l’idea di lasciar andare alcuni campioni a fronte di un cospicuo ritorno economico che sarebbe stato fondamentale per risanare le casse della federazione sportiva sovietica.

L’esodo verso ovest è stato un lungo processo di disgregazione. Uno a uno i giocatori del CSKA sfondarono la Cortina di Ferro, ma se bisogna indicare un unico episodio che ha dato il là alla fine del progetto dell’atleta-soldato questo è sicuramente la diserzione di Mogil’nyi.

Dopo la premiazione a Stoccolma per la vittoria della World Championship del 1989, Mogil’nyi sparì dall’albergo in cui risiedeva la nazionale con la complicità di un rappresentate dei Bufalo Sabres. I media lessero l’episodio come un duro colpo inferto all’ideologia e al modo di vivere socialista.

La dirigenza del partito, consapevole del fatto che sarebbe stato impossibile evitare episodi di questo genere che andavano a moltiplicarsi in tutti gli sport, lasciò giocatori liberi di scegliere dove giocare. La scelta fu presa per evitare i ‘danni d’immagine’ del socialismo, come diremmo oggi. Inoltre, la percentuale sugli stipendi trattenuta dal governo sovietico aiutava a mantenere le casse di un Paese ormai verso il collasso e a ungere gli ingranaggi della corruzione che avrebbe dilagato nella Russia degli anni novanta.

In poco tempo, più di 500 giocatori sovietici passarono alla NHL stabilendosi in Nord America. Il progetto dell’atleta-soldato era fallito. Non fu la disciplina a tradirlo e nemmeno la fedeltà o l’incapacità di saper soffrire per mettersi a disposizione del collettivo.

Fu invece il sacrificio troppo a lungo perpetrato delle libertà individuali. Anche quel ideal-tipo non può che rimanere nell’alveolo delle utopie, esattamente là dove deve stare. Come non esiste ragione per credere che lo sportivo-artista possa imporsi nel professionismo, non si può nemmeno pensare di plasmare lo sportivo-soldato. Le motivazioni individuali hanno bisogno di un contesto che le gratifichi perché è impossibile soffocarle a tempo indeterminato.

Non esiste un atleta, come non esiste un essere umano, che si privi completamente della soddisfazione dei propri bisogni e della propria autonomia per un ipotetico bene comune.

L’esperienza del CSKA dimostra che solo uno stato di controllo e paura è in grado di mettere all’atleta la maschera del soldato perfetto, ma basta un calo di tensione, lo spiraglio della libertà, per distruggere quell’illusione.

A proposito di Antonio Alberti

Classe 1986, la mia attitudine odiosa e masochista mi ha portato verso scelte anti-economiche come quella di fare un dottorato in Teoria Politica. Camminando sul bordo della disoccupazione permanente, ho deciso di racimolare qualche spicciolo scrivendo per attività commerciali, prodotti cinematografici, sport e politica. Se ci credessi, mi definirei copywriter, content writer e storyteller.

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