Angolo libri; Parlare di ultras nell’anno degli stadi chiusi: intervista a Pierluigi Spagnolo

Il suo primo libro sul tema, “I ribelli degli stadi. Una storia del movimento ultras italiano” (Odoya, 2017), lo si può tranquillamente definire un caso editoriale. È infatti molto raro che un libro che tratta un argomento così di nicchia, di un mondo bistrattato da tutti -anche dai suoi stessi protagonisti alle volte- venda tanto come ha venduto questo volume.

Spagnolo in posa con il suo primo libro a tema ultras

Il merito è del suo autore, Pierluigi Spagnolo, che è riuscito a regalare al pubblico italiano un libro sugli ultras parlando sia agli ultras sia a chi in curva non ci ha mai messo piede e mai lo metterà. A conferma del successo c’è la traduzione, avvenuta quest’anno, in tedesco del volume.

La copertina dell’edizione tedesca de I ribelli degli stadi

Dopo tre anni dall’uscita del suddetto libro, ora Spagnolo torna in libreria con un nuovo libro dedicato all’argomento calcio-stadio: “Contro il calcio moderno. Dalle Pay-tv agli stadi vuoti i tifosi trasformati in clienti”.

Come per il primo volume, anche questo secondo lavoro di Pierluigi scorre veloce, è facilmente comprensibile da chiunque e siamo certi diverrà un importante documento storico negli anni futuri. Il tutto è arricchito dalla prefazione di Oscar Giammarinaro, storico cantante e frontman dei torinesi Gli Statuto, nonché ultras del Toro.

Con Pierluigi ci siamo fatti una chiacchierata sul libro, su questo 2020 che ha portato alla chiusura forzata degli stadi e a come cambierà il mondo del tifo dopo il Covid.

Spagnolo, foto di Rainews

-Ci eravamo lasciati a metà 2017: era uscito il tuo I ribelli degli stadi, libro di grandissimo successo, che aveva l’onere e l’onore di restituirci una fotografia di quello che era stato ed era ancora il movimento ultras in Italia. Facendo finta che il Covid non sia ancora arrivato, cosa è cambiato nel mondo ultras in questi ultimi tre anni per spingerti a mandare in stampa “Contro il calcio moderno”?

Alla vigilia dei 50 anni del mondo ultras italiano, traguardo raggiunto nel 2018, mi era sembrato opportuno cercare di ricostruire mezzo secolo di un movimento che è ancora adesso, nonostante tutto, la sottocultura più longeva che la società italiana abbia conosciuto. Avevo già in mente una critica al “calcio moderno”, un atto di accusa verso il pallone diventato prodotto televisivo con i tifosi trasformati in clienti, ma l’accelerazione è arrivata dopo il lockdown, quando la Serie A e la Serie B sono ripartite a metà giugno, in tutta fretta, per non rischiare di perdere i soldi delle pay tv. Diciamo che quel calcio un po’ finto, dentro gli stadi vuoti, mi ha dato la spinta definitiva a scrivere “Contro il calcio moderno”.

-Sono ormai venti anni almeno che nelle curve si sente cantare “No al calcio moderno”. Ma cos’è questo tanto vituperato calcio moderno?

Può sembrare soltanto uno slogan, nato dalla metà degli anni Novanta, quando la presenza delle pay tv si è fatta via via più debordante. Ma quel “No al calcio moderno” esprime la critica che milioni di tifosi, negli anni, hanno rivolto alla deriva affaristico-finanziaria del calcio, alla sovraesposizione televisiva, alla repressione del tifo organizzato perché non funzionale allo spettacolo di intrattenimento che si vuole mandare in onda. Questo è, in estrema sintesi, secondo me il calcio moderno. Uno show prettamente televisivo, da seguire comodamente da casa, con i tifosi nel ruolo di consumatori, a cui propinare abbonamenti alle pay tv, maglie stravolte dal marketing più sfrenato, biglietti più costosi per stadi che presto diventeranno dei teatri, con i posti assegnati e l’obbligo di restare seduti.

-Secondo te, dall’alto della tua esperienza teorica e pratica, la colpa di questa elitizzazione del calcio è solo delle società o i tifosi, anche i più estremi, sono in qualche modo corresponsabili?

Sicuramente il calcio va chiaramente in una direzione: sarà sempre più elitario, con i grandi eventi che metteranno in ombra le piccole realtà, con la nascita di una SuperLega che svuoterà di significato i campionati nazionali, con partite che in futuro si giocheranno in campo neutro e all’estero, in Paesi disposti a pagare tanti soldi, dagli Stati Uniti alla Cina, fino al Medioriente. E poi si va verso quella che anche nel libro definisco una “gentrificazione degli stadi”, la trasformazione di un contesto popolare in un luogo per chi può spendere, attraverso il sistema degli stadi nuovi, di proprietà, comodi e sempre più costosi. Le colpe dei tifosi? Credo che l’unica colpa sia quella di non essersi opposti da subito a questa deriva.

-E poi arriva il Covid. Pensi, come afferma Enrico Brizzi in un bel pezzo dei suoi su Il Foglio sportivo, che nel 2020 sia davvero finito il Novecento del tifo?

Sì, temo anche io che questo anno senza tifo dal vivo, senza appassionati negli stadi, possa davvero segnare il punto di non ritorno per il tifo organizzato nel nostro Paese. Credo che nulla sarà più come prima, dal prossimo anno. Ma spero di sbagliarmi, ovviamente.

-Come pensi verrà utilizzato questo maledetto virus da società e istituzioni per rimodellare il concetto di tifo?

Temo che il Covid possa diventare il pretesto che il “sistema” utilizzerà per accelerare la corsa verso una sorta di modello inglese, verso gli stadi-teatro che sono un obiettivo da anni. Il Covid darà la spinta definitiva per aver stadi “a bassa temperatura”, con il pubblico seduto e ben disciplinato, con tamburi e bandieroni vietati, con la stretta definitiva sul tifo organizzato. I mille spettatori con l’obbligo di stare seduti, quelli che abbiamo visto nelle prime giornate di questo campionato, secondo me rappresentano un primo test. Vogliono stadi così, temo che si andrà in quella direzione.

-Tornando al tuo libro: pensi che qualcosa di buono il cosiddetto calcio moderno lo abbia portato o vedi tutto completamente nero?

Io non sono contrario alle partite in tv, il manicheismo non mi appartiene. Il problema non è guardare una partita di calcio in tv. Il vero guaio è trasmettere tutto, piegare il calendario del campionato alle esigenze delle televisioni, rendendo così le pay tv debordanti, farle diventare le “padrone” di un sistema che ormai si regge quasi completamente sulla valanga di milioni di euro che le tv possono sborsare per i diritti televisivi. Oggi all’incirca l’85% degli introiti su cui si regge un club di calcio arrivano dalla cessione dei diritti televisivi e dagli sponsor, il restante 15% dagli incassi al botteghino. La sproporzione è tutta qui. Non a caso la Serie A è ripartita a giugno, senza tifosi sugli spalti, perché non poteva non onorare il contratto firmato con le pay tv. Avrebbe perso l’ultima rata di quella torta sarebbe crollato tutto.  

-Donne e spalti: negli ultimi venti-venticinque anni, le presenze femminili sugli spalti sono aumentate a dismisura, tanto che ora non si stupisce più nessuno di vedere ragazze giovani e meno giovani al centro dei settori più caldi. Non credi che anche questo sia figlio del calcio moderno e dei tempi che -in questo caso fortunatamente- cambiano?

Sicuramente la sovraesposizione televisiva delle partite ha avvicinato il calcio a un pubblico ancora più ampio, quindi anche alle ragazze. Poi la trasformazione dei calciatori in divi ha contribuito ad una sorta di infatuazione verso i giocatori più celebrati dai media e più spesso sotto i riflettori. Un fenomeno quasi “di moda”, si potrebbe dire. Ma per fortuna ci sono anche tante donne convintamente tifose, appassionate di un calcio genuino e per nulla patinato, che vivono lo stadio esattamente con la stessa passione degli uomini.

-Cosa consiglieresti di fare, per innamorarsi delle curve, a un quindicenne del 2020? O meglio: può un quindicenne del 2020 ancora innamorarsi delle curve?

L’antropologo Desmon Morris descrive gli smartphone e i computer come degli “isolanti sociali”, che incidono moltissimo nella vita dei più giovani. Per questo credo che la curva di uno stadio, seguire il calcio dal vivo, rappresenti ancora un luogo di vera aggregazione, di partecipazione, dove c’è la possibilità di identificarsi in qualcosa e vivere passioni forti, un ambito trasversale e interclassista, come non ce ne sono più. Io credo che ci si possa innamorare della curva ancora oggi, come abbiamo fatto noi negli anni Ottanta e Novanta, preferire i gradoni di uno stadio ad un divano davanti alla tv è ancora possibile. Nonostante il virus.

La copertina del nuovo libro di Spagnolo, sempre edito da Odoya

 

Davide Ravan

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