Il popolare giornalista e scrittore lombardo avrebbe compiuto 100 anni l’8 settembre. Se n’è andato nel dicembre del 1992.
di Stefano Ravaglia
“Sono padano di riva e di golena, di boschi e sabbioni. E mi sono scoperto figlio legittimo del Po”. L’8 settembre, insieme ad Ariosto e all’armistizio, come scrisse lui, venne al mondo anche Gianni Brera, probabilmente il più grande giornalista sportivo italiano. Il che non rende giustizia a un personaggio controverso, carismatico e dirompente, dal linguaggio forbito e dal bicchiere facile.
Era il 1919 e a San Zenone, terra di contadini, e cento anni dopo si celebra una vita vissuta intensamente, con la scrittura come maniacale compagna di vita, insieme alla moglie e ai quattro figli, una vita bruscamente interrotta da un incidente stradale in una sera d’inverno tra il 18 e il 19 dicembre ’92.
Brera polemista: a Pasolini che lo criticava disse “Non lo prendo a calci nel sedere perché gli piacerebbe”, a Umberto Eco che lo definì un “Gadda spiegato ai poveri”, diede del pirla. E lui si giustificava così: “Ho preso tanti calci nei denti, sono diventato un po’ ringhio e acido. Ma ricordate: quelli simpatici, non hanno personalità. Non dicono mai la loro opinione”.
Innamorato folle del vino e del catenaccio, nonché dei sigari toscani, che si portava regolarmente in tribuna stampa insieme a molteplici taccuini. Alla Gazzetta dello Sport, preso da Roghi a guerra finita (arruolato nei parà, lavora nell’ufficio stampa della folgore), dice di volersi occupare di calcio e boxe, gli sport che conosce di più. Gli danno l’atletica, e lui se ne innamora a tal punto da diventare vice presidente della federazione. Nel 1949 ne diventa il più giovane direttore di un giornale in Italia.
La celebre intervista con Nereo Rocco, amico di bevute che lo saluta nell’ultimo Natale di vita con un bigliettino: “Brindo a te purtroppo con l’acqua Fiuggi”. E poi Coppi, nato in umili vesti e divenuto grande, che gli ricordava un po’ la sua storia. Un giorno, per tirare giù una biografia a lui dedicata, Brera se lo carica in macchina e nel viaggio da Milano a Bologna, dove entrambi erano casualmente diretti, attinge dalla chiacchierata informazioni preziose per la sua opera. Scriveva a ritmi serrati, sempre con la sua Lettera 22, e non c’era verso di fargli imparare il computer.
Ma ciò che ha reso più celebre Brera è stata la capacità di sfoderare neologismi restati attuali: palla-gol, incornata, goleador, intramontabile, “Rombo di tuono”, il soprannome del suo giocatore più amato, Gigi Riva, “Bonimba” per Boninsegna o “Abatino”, quello dato a Rivera, col quale non mancarono le punzecchiature risolte sempre a Barbaresco donato dal dieci del Milan.
Grande incantatore, nei giovedì di cene virili tra colleghi maschi, con moglie e fidanzate a casa, intratteneva affabulando i presenti. Le sue origini contadine lo avevano spinto ad auto-definirsi il “principe della zolla”, titolo anche di una riuscita raccolta dei suoi scritti uscita nel 2016 per Il Saggiatore. Pianariva, come chiamava la sua terra d’origine, gli è rimasta dentro per tutta la vita.
Si definiva genoano ma spingeva per le milanesi, non era politicamente schierato e nonostante la provenienza padana definiva Umberto Bossi un “tenutario di casini”. Oltre alle doti di bevitore, non disdegnava di essere una buona forchetta, seppur ritenesse, fra il serio e il faceto, che il paese dove si mangiasse meglio fosse la Danimarca. Perché? “C’è la carne migliore del mondo e quando c’è la carne, c’è tutto”.
Tanti i nomi cresciuti alla sua scuola: Beppe Viola, Gigi Garanzini, Gianni Mura, forse quest’ultimo il suo vero erede, nelle fattezze e nel linguaggio. Da giovane giornalista esordiente, Mura lo andò a trovare a casa. “Parliamo un’oretta”, e invece fecero le sei del pomeriggio. Presentatosi in mocassini, Mura dovette aiutare Brera con l’aia e le oche, tra cui “De Gaulle”: aveva chiamato così un’oca che di profilo pareva il generale francese. Trovare un erede di “Gioanbrerafucarlo” sarebbe stato impresa complicata.
E ancor più oggi, con il giornalismo urlato e sensazionalistico così lontano dalla prosa breriana. “Da trent’anni bevo rosso con il pesce”, scrisse una volta su Repubblica, nel 1989. E il significato di Gianni Brera, a cent’anni dalla nascita, in fondo sta tutto qui.