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C’era una volta Massimo Palanca, l’oro di Catanzaro

Baffoni, 37 di piede e tanti gol, portò i giallorossi in serie A.  Con un vizio: segnare direttamente da corner

Camerino è un paese di seimila anime nelle Marche. Storia, cultura, buon cibo in una regione che è uno di quegli angoli d’Italia che sembriamo a volte trascurare, tutti presi dalle mete esotiche o da quelle più in voga al momento.

A volte la bellezza sta nelle piccole cose e nella semplicità, e se vi capiterà di passeggiare dentro Camerino, scorgerete da qualche parte una boutique di abbigliamento di proprietà di un signore con  baffoni che lo hanno reso celebre anche quando giocava a calcio. Entrando in quel negozio potrete riconoscere Massimo Palanca, attaccante che ha fatto della bellezza e della semplicità le sue qualità maggiori. Il carattere schivo e riservato del bomber che deliziò Catanzaro nella seconda metà degli anni ’70, lo ha reso un personaggio d’altri tempi, come molti di quegli uomini protagonisti di un calcio ormai morto e sepolto.

Massimo Palanca nasce a Loreto, nel 1953. È proprio nel Camerino che inizia la sua carriera mettendo insieme una quarantina di partite, le sue prime, in cui va spesso e volentieri a segno.

Guadagna quindicimila lire al mese, e nel 1973 approda immediatamente in serie C al Frosinone, salendo alle cronache per aver vinto la classifica cannonieri con i laziali. Un provino effettuato da centrocampista sembrava non convincere la dirigenza frusinata, e fu solo grazie all’insistenza del suo allenatore al Camerino, Guizzo, che il Frosinone si convince ad acquistarlo e a spostarlo in attacco, ruolo a lui più congeniale.

La grande storia d’amore con il Catanzaro inizia la stagione successiva, e sotto la guida di Gianni Di Marzio, padre dell’attuale Gianluca giornalista di Sky, i calabresi sfiorano subito la serie A.

I punti messi insieme alla fine del torneo sono 45, gli stessi del Verona. È necessario uno spareggio che si gioca sul neutro di Terni, in cui gli scaligeri hanno la meglio ai calci di rigore. Palanca è soprannominato “folletto”, poiché è tutt’altro che un attaccante possente: è gracile, alto circa 170 centimetri e indossa il 37 di piede.

A Catanzaro diviene l’idolo della curva Ovest, gli viene affibbiato anche il nomignolo di “Imperatore”. Spesso, quando il Catanzaro si allena, i tifosi accorrono numerosi a sbirciare i suoi calci di punizione. Ma è su un altro calcio piazzato che il nostro se la cava egregiamente: saranno 13 i gol in carriera segnati direttamente su calcio d’angolo. Il secondo anno in giallorosso è quello propizio: il Catanzaro, che aveva già visto la A cinque anni prima, vi ritorna arrivando secondo al termine del torneo cadetto. Retrocesso immediatamente, l’ascensore continua: è sufficiente una sola stagione per rivedere Palanca e i calabresi di nuovo nella massima serie.

È l’epopea del presidentissimo, Nicola Ceravolo, entrato nel club all’età di 24 anni non ancora laureato e che per un buon trentennio ha regalato alla città una favola straordinaria per un così piccolo club del Sud Italia. Da ricordare, precedentemente al periodo di Palanca, la finale di Coppa Italia persa nel 1966 contro la Fiorentina, e i numerosi campionato di vertice nelle prime tre categorie del calcio italiano, nonché una forte rappresentanza in Lega Calcio a fianco di presidenti quali Renato Dall’Ara e Angelo Moratti.

La caparbietà e la lungimiranza del numero uno catanzarese si riflette anche in campo tra i giocatori e soprattutto in Palanca, che del club diviene praticamente una bandiera, un simbolo. La stagione 1978-79 verrà ricordata come quella del miglior risultato, sino a quel momento, nella massima serie per il Catanzaro che giungerà nono. Palanca sarà per distacco il miglior realizzatore con dieci reti, in una squadra allenata da Carletto Mazzone che schiera tra le sue file Maurizio Turone e un certo Claudio Ranieri.

Su tre di quelle dieci reti occorre soffermarsi però. È il quattro marzo del 1979 e il Catanzaro è impegnato a Roma. Gli ospiti vincono 3-1, con Palanca autentico mattatore. Il primo gol della sua tripletta avviene direttamente da calcio d’angolo: un sinistro a girare che si insacca nell’angolo opposto.

Il momentaneo pareggio di Di Bartolomei su rigore non impedirà al marchigiano di scatenarsi prima della fine del tempo segnando il raddoppio e chiudendo poi la partita nella ripresa. Quel gol così funambolico direttamente dalla bandierina, come detto non sarà causale.

Sebastiano Vernazza, giornalista della “Gazzetta dello Sport”, a questo proposito ne ha scritto le gesta:

«E poi arrivò quel tizio coi baffi, che prese a segnare gol da calcio d’angolo, direttamente, senza filtro. I palloni spiovevano e beffavano stupefatti i portieri. La prima volta venne archiviata alla voce ‘stravaganze della domenica’, una botta di sedere. Alla quinta o sesta rete però, tutti si convinsero: né fortuna, né cross sbagliati. Quel tizio voleva proprio segnare».

La parabola di Palanca con il Catanzaro si conclude nel 1981, lasciando la squadra di nuovo salva in A. E pensare che due anni prima, nel 1980, i giallorossi erano retrocessi, ma furono ripescati in seguito alle retrocessioni di Milan e Lazio dovute allo scandalo delle scommesse.

Il Napoli se lo aggiudica per più di un miliardo di lire, palate di soldi all’epoca, ma i due rigori sbagliati in Coppa Italia e le difficoltà di ambientamento, faranno passare il capoluogo campano come una sorta di tappa intermedia nella sua carriera. Nel frattempo, il Catanzaro non risente della sua partenza, tutt’altro: nella stagione 1981-82, la prima senza Palanca, centra il miglior piazzamento della sua storia in A, il settimo posto.

Sembra inceppato il nastro del gol di Massimo, che tra un anno a Como e il ritorno a Napoli, segna solo tre gol in due anni. Ci vuole il ritorno in provincia, al Foligno, per riprendere la marcia: i gol saranno 18 in due campionati.

A questo punto, le strade di Palanca e del Catanzaro non possono che incrociarsi di nuovo. Il bomber depresso non segna più come ai tempi d’oro, il Catanzaro è addirittura sprofondato in C1, chiudendo un ciclo storico. Ecco dunque che nel 1986 i calabresi abbracciano ancora il loro “folletto”.

Resterà di nuovo quattro anni in maglia giallorossa, tornando a segnare come faceva circa dieci anni prima, trascinando subito la squadra in serie B e vincendo la classifica cannonieri con 17 reti, poi assaporando ancora il gusto di una nuova, possibile serie A nel 1987-88, sotto la guida di Vincenzo Guerini, quando la società mancò per un solo punto una nuova promozione.

Forse, a pesare fu anche il rigore che proprio lui sbaglia in una partita contro la Triestina all’ultimo minuto. Il pallone calciato da Palanca finisce sul palo, e questa non è una notizia così clamorosa. Quello che colpisce, dopo il fattaccio, è l’uscita dal campo del bomber in lacrime, lacrime vere, autentiche.

Lo staff del Catanzaro e qualche suo compagno di squadra lo accompagnano fuori. Un tifoso gli cinge intorno al collo una sciarpa giallorossa. Vide affacciarsi al calcio il giovane Massimo Mauro («era agli inizi, si vedeva che aveva talento») e visse in prima persona la scomparsa del presidente Ceravolo che avvenne proprio a cinque giornate dalla fine di quel campionato. Fu un grande smacco non riuscire a regalare il traguardo di un’altra serie  A alla memoria dell’uomo che aveva fatto grande il Catanzaro negli anni ’70.

Appende le scarpe al chiodo nel 1990, con una nota amara: la retrocessione in serie C. Il pubblico gli tributa una standing ovation durante la sua sostituzione in Catanzaro-Barletta.

Questa è la storia di Massimo Palanca, bomber di provincia, figlio di padre Renato che faceva il custode di un campo da calcio a Porto Recanati:

«Eravamo due maschi e sei femmine in famiglia. Io e mio fratello Gianni eravamo sempre in campo, a provare e riprovare. Sono un povero diavolo, vivo alla giornata, in provincia, lontano mille chilometri dai grandi centri. Ma la sera, quando me ne vado a casa, Catanzaro diventa Parigi, Roma, New York. Sarò un po’ matto ma è così».

A proposito di Stefano Ravaglia

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