Germania Ovest Vs Germania Est

DDR Vs DFR – Il calcio nella Germania divisa (Prima Parte)

Ci sono eventi sportivi, atleti, gare a cui vengono attribuiti significati particolari, valori e interpretazioni retoriche, letture parziali e faziose. La storia della seconda metà del novecento è stata segnata dalla Guerra Fredda, dalla divisione del mondo in ideologie contrapposte, dall’imminenza perenne dello scontro finale. Un contesto quasi-bellico in cui, nell’immaginario collettivo, a combattere ci andavano gli sportivi. In Europa, tutto questo trovava una sintesi nella divisione della Germania.

La scissione di una nazione con una cultura comune solida ma sradicata e indirizzata verso nuovi disegni ideologici. Una divisione che distingueva anche il modo di fare sport, di giocare a calcio.

Va da sé che la partita fra Repubblica Federale Tedesca e DDR nei mondiali del 1974 fu – almeno per i dirigenti politici e i demagoghi delle potenze che tiravano i fili delle due metà della mela – l’occasione per dimostrare il valore dei rispettivi sistemi. A distanza di anni, invece, quella sembra più che altro la riproposizione sul campo del paradosso di un popolo in lotta con se stesso. Una lotta esistenziale da cui non poteva uscire né un vincitore né uno sconfitto.

Il calcio nella Germania dell’Est

Per decenni il muro di Berlino è stato il confine fra una realtà e il suo opposto, un valico che catapultava le persone in contesti in cui il significato delle cose e degli eventi trovava differenze sostanziali. È un destino che tocca la musica, le arti, i costumi e anche lo sport.

Se nella Germania Occidentale degli anni settanta il calcio ha la stessa importanza che oggi gli attribuiamo, lo stesso non si può dire nella fetta orientale di quella parte di mondo teutonico. Lì, il pallone non ha lo stesso appeal che trova in Occidente e la rappresentativa della DDR rispecchia le attenzioni tiepide che il sistema e le persone hanno per quel gioco dalla tradizione troppo anglo-sassone, troppo legato al pensiero reazionario dei paesi imperialisti.

Nella Germania dell’Est, le squadre di quasi-dilettanti, sono la facciata sportiva della Stasi, del Governo, delle organizzazioni di lavoratori. Tutte le società che hanno come prefisso la parola Dynamo sono connesse ai servizi segreti; la Vorwärts fa capo al ministero della difesa; le aziende statali di meccanica e siderurgia danno il nome a formazioni dai toni dopolavoristi, si chiamano Rotation Babelsberg, Turbine Potsdam, Traktor Gross-Lindau.

A seconda del momento politico e delle esigenze del sistema, capita che i club cambino città in un balletto di assegnazioni simile a quello delle franchigie NBA. Allora la Dynamo Dresden diventa Dynamo Berlin dal giorno alla notte e la Vorwärts passa da Lipsia alla capitale con un colpo di spugna centralista.

In mezzo all’organizzazione ‘politica’ della lega, si distinguono alcune altre società storiche come la FC Magdeburg: club fondati prima della guerra, prima del nazismo e, in alcuni casi, prima ancora della Repubblica di Weimar.

Già dai settori giovanili, il calcio rimane sullo sfondo della cultura sportiva dominante. A pallone finiscono per giocarci i ragazzi che sono stati scartati dalle altre discipline: dall’atletica, dal nuoto, dalla ginnastica e dagli sport invernali.

La stessa nazionale è un gruppo di atleti mediocri almeno fino all’inizio degli anni settanta. Il mondiale è però un’occasione unica, il palcoscenico internazionale per dimostrare che si, il socialismo preferisce competere in altri campi, ma se ci si mette vince anche nel prendere a pedate la palla.

Il contesto storico e sportivo del mondiale

Durante l’estate del 1974, la Germania Ovest – sponsorizzata dall’intero blocco occidentale – ha l’urgenza di recuperare il prestigio internazionale in termini di sicurezza dopo gli eventi drammatici dell’Olimpiade di Monaco.

Solo due anni prima, nella citta bavarese che ospitava i Giochi, il commando palestinese di Settembre Nero aveva massacrato 11 atleti della rappresentativa israeliana e un poliziotto: un duro colpo per gli equilibri geopolitici in un’aerea cosi delicata; una macchia indelebile sull’efficienza delle forze armate tedesche e dei tutor a stelle e strisce.

L’occasione per far ricredere il mondo sulla stabilità e sulla sicurezza della Germania dell’Ovest sono appunto i mondiali di calcio. L’evento ha per la prima volta una portata eccezionale, è allargato a 16 squadre ed è strutturato in modo da garantire 38 partite.

La manifestazione prevede quattro gironi che permettono alle prime due squadre di ogni gruppo di accedere a un secondo turno all’italiana da cui usciranno le finaliste del torneo. Nel complesso, quella competizione – per spettacolarizzazione dell’evento – può essere ritenuta la prima dell’era moderna.

Si tratta, infatti, di un torneo in cui le esigenze televisive impongono un grappolo abbondante d’incontri: cartoline su Amburgo, Berlino Ovest, Dortmund, Düsseldorf, Francoforte, Gelsenkirchen, Hannover, Monaco di Baviera e Stoccarda. Riflettori puntati su nazioni e culture lontane come lo Zaire, Haiti e, appunto, la Repubblica Democratica Tedesca.

All’alba del Mondiale le favorite sono le solite. Il Brasile di Pelé – dopo aver definitivamente esposto in bacheca la Coppa Rimet – sembra essere la formazione con i favori del pronostico e la ragione non va nemmeno spiegata.

D’altro canto, Germania Ovest, Italia e Argentina sono pronte a contendergli il titolo, forti di calciatori esperti e gruppi solidi che hanno assicurato una successi e gloria alle squadre di club e alle selezioni nazionali . Anche l’Olanda, poi riconosciuta dalla storia come la squadra che rivoluzionò il modo di giocare a pallone, sembra poter dire la sua, in punta di piedi.

Il primo girone eliminatorio

Il Gruppo A del primo turno eliminatorio include il Cile, l’Australia, la Germania Occidentale e quella Orientale. L’urna mette sul piatto del mondiale la partita più attesa dal popolo tedesco. Nell’armata quasi completamente bavarese della Mannschaft spiccano i nomi di Beckenbauer e Müller, ma gli altri non sono certo dei comprimari. Ci sono i Cullmann, i Breitner, i Grabowski e gli Hoeneß.

Il Bayern, che presta sette degli undici titolari a quel tempo inamovibili, è campione nazionale da tre anni consecutivi e incomincia ad avere successo anche in campo internazionale, del ’74 è infatti la prima vittoria in Coppa dei Campioni poi replicata l’anno successivo.

La rappresentativa dall’altra parte del muro è ben poca cosa a confronto. Di fatto, il successo in Coppa UEFA del Magdeburgo contro il Milan di Capello, datato esattamente 1974, rimarrà l’unica vittoria in Europa di una squadra della DDR.

I nomi che compaiono nelle formazioni ufficiali non dicono nulla. Come se l’ideologia anti-individualista abbia effettivamente fatto la sua parte, nessuno si ricorda oggi del portiere Croy, del difensore Wiese, di Lauk o di Hoffmann.

Nella loro divisa blu, con tagli di capelli meno eccentrici dei vicini di casa e molti meno trofei o riconoscimenti personali da esibire sulle mensole dei loro appartamenti popolari, i calciatori della DDR rimangono indistinti nella memoria.

Malgrado la differenza tecnica, il cammino delle due tedesche fino all’ultima partita del girone è simile. La Germania Ovest batte prima il Cile di misura, un 1 a 0 che sa molto di rodaggio; poi s’impone sull’Australia (malcapitata si sarebbe detto all’epoca) per 3 a 0. I connazionali pareggiano invece con i sudamericani e vanno a vincere per due reti a zero contro l’Australia.

Sono entrambe qualificate al secondo turno prima dell’ultima partita del girone, resta solo da decidere chi sarà la prima e chi la seconda: roba di poco conto a guardarla con gli occhi disincantati e pragmatici dello spettatore contemporaneo; una differenza abissale per una società spaccata fra tesi e anti-tesi come quella degli anni settanta.

Ad Amburgo, di fronte a 60,000 spettatori e ai media di tutto il mondo va in scena l’ennesima battaglia propagandistica fra Est e Ovest, fra socialismo e capitalismo, fra la retorica dell’eguaglianza e quella della libertà. Novanta minuti di scontri di frontiera che a malapena assomigliano a una partita di calcio.

A proposito di Antonio Alberti

Classe 1986, la mia attitudine odiosa e masochista mi ha portato verso scelte anti-economiche come quella di fare un dottorato in Teoria Politica. Camminando sul bordo della disoccupazione permanente, ho deciso di racimolare qualche spicciolo scrivendo per attività commerciali, prodotti cinematografici, sport e politica. Se ci credessi, mi definirei copywriter, content writer e storyteller.

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