Il giornalista e scrittore Darwin Pastorin, intervistato giovedì a margine della presentazione del suo ultimo libro

ESCLUSIVO – Intervista a Darwin Pastorin

Darwin Pastorin, giornalista e scrittore italiano, ha dato da poco alle stampe il suo ultimo libro “Storia d’Italia ai tempi del pallone” (CasaSirio editore).

Già impegnato nelle principali testate giornalistiche italiane (pensiamo a il manifesto, La Stampa, l’Unità, Tuttosport) e volto televisivo, tra le altre, di La7, dove fu direttore della testata La7 Sport, sulla quale ha condotto il programma “Il goal sopra Berlino” durante i mondiali di calcio in Germania nel 2006.

E’ autore di tanti libri, tra i quali ricordiamo “L’ultima parata di Moacyr Barbosa” (Mondadori), “Ode per Manè” (Limina), “Lettera a mio figlio sul calcio” (Mondadori), “I portieri del sogno” (Einaudi) e “Lettera a un giovane calciatore” (Chiarelettere).

L’ho incontrato a margine della presentazione del suo ultimo libro giovedì scorso, al circolo Arci B-Locale di Torino, e ne è venuta fuori una bella chiacchierata sul calcio, sul suo libro, sulla storia d’Italia e sulla situazione politica attuale.

 

-Come nasce questo tuo ultimo libro?

”Questo libro nasce da una casa editrice, CasaSirio, giovane, bella, coraggiosa, con dei progetti che mi hanno subito entusiasmato. Dal direttore della collana Fernando Masullo, che è stato un corrispondente Rai, un autore televisivo, un personaggio che ha fatto la storia del giornalismo italiano e da Andrea Bozzo, il grande disegnatore che ha reso bellissimo questo libro. L’idea era quella di raccontare la storia d’Italia attraverso il pallone, un po’ come la palla da baseball di De Lillo che passa attraverso la storia degli Stati Uniti.

La mia idea è stata quella di raccontare questa avventura partendo da un momento drammatico come la tragedia di Superga: in un momento in cui l’Italia rinasce dalle rovine della Seconda guerra mondiale, ecco che subito torna nel buio. La più grande squadra di tutti i tempi, gli Invincibili, sparisce nello schianto contro la basilica di Superga”.

 

-Ecco, a questo proposito volevo chiederti: quanto il calcio può tornare utile per raccontare la storia del nostro Paese?

”Torna utile eccome, e sai il perché? Se io penso appunto alla tragedia di Superga, quel momento in cui l’Italia si ritrova smarrita e perduta, il nostro Paese riesce a rinascere anche grazie al ricordo di quei campioni, di Valentino e di tutti gli altri uomini di quella magnifica squadra.

Aveva ragione Enrico Deaglio quando disse che la morte di Gigi Meroni, in un qualche modo, anticipò il ’68 in Italia. Oppure l’arrivo di Anastasi alla Juventus, con l’attaccante che sbarca a Torino proprio nel 1968, ed è un colpo, oltre che tecnico, sociale della famiglia Agnelli, che con questo acquisto riesce a calmare gli animi degli operai di Mirafiori, in subbuglio per l’aria di rivolta che si respirava in quel periodo nelle fabbriche e nelle università. Dopo Anastasi continuerà questa politica degli Agnelli, ed infatti a Torino arriveranno anche Cuccureddu dalla Sardegna, Causio da Lecce e Furino da Palermo. Tanto che, alla domenica, vi è una tregua sindacale grazie alla presenza di Anastasi e co. sul campo del Comunale.

Poi ci sono ad esempio gli anni ’70 con la tragedia di Re Cecconi, e quindi tu puoi legare un ricordo di un momento della tua vita al calcio ma al contempo anche alla società e alla nostra storia politica, culturale e sociale”.

 

-Cosa ne pensi di questa esplosione della letteratura sportiva?

”Diciamo che tutto è cominciato venticinque anni fa circa con Enrico Marchesini e la sua casa editrice Limina. Marchesini fu il primo a credere nella letteratura sportiva e a darle continuità. Adesso di libri sul calcio ce ne sono tanti, buoni e meno buoni, ma è importante comunque che questi libri raccontino le nazioni e le società attraverso il calcio.

Io ho avuto la fortuna nella mia carriera di avere due maestri: nel giornalismo sportivo Vladimiro Caminiti, che mi insegnò che il racconto del calcio deve sempre incominciare dal verde del prato e dall’azzurro del cielo, mentre dal punto di vista della letteratura un altro narratore, anche lui legato al calcio, che è Giovanni Arpino. Arpino scrive di calcio sdoganando definitivamente la letteratura calcistica, innalzandola al livello di “letteratura di Serie A” grazie al suo modo di intendere il giornalismo sportivo, un giornalismo per lui fatto di giri nelle tribune stampa, negli spogliatoi, negli stadi e nei palazzetti sportivi, tutte cose impensabili prima di lui. Va ricordato come Arpino nel 1964 vinse il Premio Strega con il romanzo “L’ombra delle colline”, quindi un grandissimo narratore “imprestato” al mondo del calcio per suo stesso volere”.

 

-Vista la tua carriera e visti i due nomi di cui ci hai appena parlato, non puoi tirarti indietro da questa domanda: cosa consigli ai ragazzi che si stanno avvicinando ora al mestiere di giornalista?

”Prima cosa: non demordere. Continuare a coltivare questo sogno.

I tempi sono cambiati ed è più difficile ora entrare in una redazione e svolgere questo mestiere, però bisogna crederci. Soprattutto non deve mancare la capacità di inventare qualcosa di nuovo e, altra cosa molto importante, bisogna tornare al racconto: quello che manca oggi, in particolar modo nei quotidiani, sono le storie da raccontare, che invece sono fondamentali in questo mestiere”.

 

-Ti emoziona ancora il calcio italiano?

”Un po’ meno che in passato, sempre un po’ di meno. Il mio derby ormai è diventato Juventus-Cagliari perché mio figlio Santiago tifa per il Cagliari, e quindi allo stadio vado per questa partita e basta.

Mi emoziona molto ricordare il passato, questo sì, perché il calcio, come disse Javier Marias, “è la nostra giovinezza ripresa per mano” e quindi a volte mi ritrovo a pensare a quando il mio idolo, Pietro Anastasi, giocava e a quando giocavo anche io. A quando c’erano i prati e potevi giocare; potevi giocare nei cortili e in piazza, mentre oggi è diventato difficile giocare e già questo è abbastanza deprimente”.

 

-Tu che sei stato migrante, oltre che figlio, nipote e pronipote di migranti, cosa ne pensi delle politiche di questo governo, che tra le altre cose vanno ad influire anche sul calcio, come accade proprio in questi giorni con lo sgombero del Cara di Castelnuovo di Porto, dove è venuta alla luce, riportata da alcune testate, la storia di Anszou Cissè, giovane migrante che aveva trovato spazio nella squadra di Prima categoria del paese e che ora si trova costretto ad abbandonare tutto e a ricominciare (forse) da un’altra parte.  Ecco, cosa ne pensi di tutto questo?

”Non possiamo perdere mai la generosità, la tolleranza e la pietà.

Io sono nato perché il mare era calmo e i porti erano aperti. Chiudere i porti è qualcosa di spaventoso; il mar Mediterraneo è diventato il più grande cimitero del mondo e noi non possiamo dimenticare quelle che sono state le nostre storie, le nostre radici e non possiamo permetterci il lusso di perdere la memoria.

Lo dico sempre: il mio più grande orgoglio è quello di essere figlio, nipote e pronipote di migranti, e per questo io guardo agli altri non come a “nemici” ma come a fratelli che hanno bisogno di aiuto, così come i miei bisnonni, i miei nonni e i miei genitori hanno avuto bisogno di aiuto, di futuro, di pane e di speranza”.

 

-Anche perché se si guarda al calcio, o al mondo dello sport in generale, di oggi, i vari Okaka, Balotelli, Ogbonna, Kean, le ragazze della pallavolo e le ragazze e i ragazzi dell’atletica dimostrano come in realtà lo sport sia più avanti della politica nel campo dell’integrazione.

”Ma assolutamente sì! Voglio dire, è bello poter vedere che l’Italia può essere di tutti, non esiste “l’Italia agli italiani”.

Io sono nato in Brasile e ho avuto subito lo Ius Soli, sono arrivato in Italia e sono subito diventato italiano. Perché io devo esser più fortunato di altri soltanto perché sono nato nella nazione giusta in quel momento?

Lo sport è avanti quando ritorna ad essere sport, quando ritorna ad essere come la definizione che diede del calcio Jean Paul Sartre, che disse che “il calcio è la metafora della vita” e molte volte il calcio sa essere una meravigliosa metafora dell’esistenza”.

 

-Ultima domanda: hai già progetti editoriali futuri?

”Sì, ci sono tante storie lì pronte ma è ancora presto per annunciarle, quando verrà il momento le presenterò. Dico solo che fra tutte queste storie vi è anche un romanzo che non ha a che fare con il calcio”.

 

Di Davide Ravan

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