Battaglie per il prestigio che si spostano sui campi da calcio; fiumi di dollari e scommesse; riciclaggio, rapimenti e assassini: sintesi del calcio colombiano nell’era di Escobar e dei cartelli del narcotraffico.
L’arbitro indica il centrocampo. Escobar rimane steso, fissa la palla in fondo alla rete con la schiena sul prato del Rose Bowl Stadium di Pasadena. Ha appena commesso l’errore più significativo della sua carriera. Una carriera importante per un calciatore colombiano; una carriera che verrà ricordata più che altro per quel che gli accadrà da dieci giorni a quella parte.
L’assassinio di Andrés Escobar per mano della criminalità organizzata rimane il centimetro terminale della punta di un iceberg alla cui base sta più di un decennio di attenzione malavitosa verso il calcio colombiano. Campionati falsati, minacce, pestaggi, rapimenti e sommarie esecuzioni sono solo i sintomi di un sistema sportivo del tutto controllato dai cartelli del narcotraffico fin dal termine degli anni settanta.
Il narcotraffico nel calcio colombiano
La droga, il business, lo sport sono occasioni d’investimento. Solamente occasioni d’investimento. È cosi per qualsiasi forma, sfumatura e accento di malavita. Lo sanno le autorità di tutto il mondo come lo sa chiunque abbia mai visto ‘I Soprano’, ‘Quei bravi ragazzi’ o qualsiasi altro gangster movie più o meno apprezzabile. Non è un caso, dunque, che agli inizi degli anni ottanta, spinti dal successo economico dei viaggi oltreconfine carichi di cocaina, i cartelli colombiani del narcotraffico si siano interessati al calcio: allo sport più seguito; a quello con il più vasto bacino d’utenza; all’attività ricreativa con maggiori potenzialità in termini economici e di potere. Il calcio finisce con il diventare uno strumento per aumentare la popolarità e il controllo sulle comunità; viene sfruttato per riciclare soldi sporchi e manipolare le scommesse clandestine. Il calcio traferisce le lotte per il prestigio dalle guerre di strada fino all’area di rigore.
I primi ad accorgersi dell’occasione di arricchirsi e consolidare le basi della proprio brand tramite il pallone saranno i fratelli Dávila Armenta: imprenditori dediti al traffico di marijuana che nel 1979 iniziano a dirigere l’Unión Magdalena de Santa Marta. Il piccolo club si trova in cattive acque, è in rotta di collisione, si appresta a sbattere contro la deriva della retrocessione, povero di quattrini e di talento. È il primo successo della malavita nel mondo pallonaro. Il club si salverà (nemmeno a dirlo) ma, soprattutto, segnerà la strada per la florida industria del narcotraffico.
Da lì a pochi anni, i vari signori della droga colombiani si contenderanno il mercato internazionale, il controllo geografico del paese e i campionati fino a contaminare la stessa Copa Libertadores. Fernando Carrillo riciclerà i soldi della cocaina nell’Independiente de Santa Fé; Hermes Tamayo e Gonzalo Rodríguez Gacha ‘El Mexicano’ gestiranno il Millonarios de Bogota; i fratelli Gilberto e Miguel Rodríguez Orejuela si occuperanno delle sorti del Deportivo Pereira. In brevissimo tempo, all’inizio degli anni ottanta, il calcio colombiano viene invaso dalla criminalità. Il business attira l’attenzione dei maggiori cartelli e, dunque, anche quella del Patrón di Medellin, Pablo Emilio Escobar Gaviria.
Pablo Escobar, Patrón dell’Atlético Nacional
Sul finire degli anni settanta, l’ascesa criminale di Pablo Escobar aveva gettato le basi per un futuro florido e sicuro. Il cartello di Medellin gestiva il traffico di gran parte della cocaina destina agli Stati Uniti e al centro America mentre cercava di imporsi in Europa passando per la Spagna. È in quel periodo che l’organizzazione inizia ad allargare gli orizzonti della sua vision imprenditoriale: guarda alla politica, ai trasporti intercontinentali e, chiaramente, al futbol. È in quel periodo che il narcotrafficante più celebre della storia inizia a investire nei club del suo feudo, l’Independiente de Medellin e l’Atletico Nacional. Al secondo dei due dedica la parte maggiore dei suoi sforzi economici, spinto dall’obiettivo di portare la Libertadores sul suolo colombiano per la prima volta nella storia.
Lungi dall’esporsi in prima persona, Escobar non acquistò mai ufficialmente il club, ma la sua influenza era tanto dominante che si racconta i giocatori stessi gli rendessero omaggio facendo visita a ‘La Catedral‘ – la prigione ‘luxury’ in cui era recluso l’imperatore della cocaina. L’Atletico era diventato la cartina tornasole del suo prestigio, uno strumento di narco-marketing latino su cui valeva la pena riversare investimenti rilevanti. Succede, dunque, che nel corso della sua decade d’oro, Escobar finanzia, acquista giocatori, gestisce allenatori e manipola campionati affidandosi ai sistemi collaudati durante l’intera vita criminale: violenza, soldi, tangenti e ancora violenza.
Il successo internazionale del narcofutbol
Il 1989 è l’anno della consacrazione, la stagione in cui vengono raccolti i risultato degli sforzi e della dedizione del Patrón. L’Atletico Nacional è indubbiamente la formazione più forte del Paese e può affrontare senza timori reverenziali i club storici del continente. Higuita, Leonel Álvarez, Tréllez, Albeiro Usuriaga e quello stesso Andrés Escobar che sarà poi protagonista della vicenda più shockante per il movimento sono le stelle della squadra – stelle guidate da un maestro di calcio come Francisco “Pacho” Maturana. Il campionato nazionale è sospeso per un’altra vicenda che illumina sulla mole di legami fra calcio e malaffare: l’assassinio di Álvaro Ortega, direttore di gara giustiziato per aver annullato una rete regolare all’Independiente de Meddelin.
Con l’interruzione del campionato regolare, Higuita e compagni possono dedicarsi unicamente alla competizione continentale. Superano il girone come secondi a 7 punti. Nelle partite a eliminazione diretta, la formazione di Medellin elimina Racing Club, Millonaros e Danubio. Nella gara d’andata della finale, l’Olimpia de Asunción s’impone per 2 reti a zero, risultato ribaltato al ritorno con una goffa autorete e un’uscita troppo audace del portiere della formazione paraguaiana. Ai calci di rigore, l’Atletico Nacional si afferma per 6 a 5 e segna la storia del calcio colombiano. Quello è il punto più “alto” del narcofutbol, almeno per quanto ne sappiamo. Di fronte al Milan di Sacchi, la compagine di Escobar esce sconfitta e riattraversa l’oceano ridimensionata.
Quella stessa formazione che in Sud America si fa riconoscere per il mix di follia e talento forma l’ossatura della selezione nazionale: una squadra che riesce a qualificarsi ai mondiali per due volte consecutive contro ogni precedente storico. A Italia ’90 la Colombia disputa un torneo gagliardo: passa comodamente sugli Emirati Arabi Uniti; costringe al pareggio la Germania; esce solo agli ottavi per mano della sorpresa del torneo, il Camerun di N’Kono, Kundé, Omam-Biyik e Roger Milla, autore della rete che beffa Higuita. Nel 1993, gli stessi uomini si piazzano al terzo posto della Copa America legittimando i valori continentali alle spalle di Argentina e Brasile. USA ’94 è attesa in patria come la prova della maturità: la nazionale ha superato l’Argentina per 5 a 0 durante le qualificazioni e la rosa sembra pronta a raggiungere traguardi importanti. La competizione è seguita dai narcos come l’ennesima occasione di profitto: cifre ingenti vengono riversate sul calcio scommesse pronosticando vittorie prestigiose che non arriveranno mai.
Escobar dall’autogol all’assassinio
È seguendo quelle vicende criminali che ci ritroviamo sul prato di Pasadena mentre il pallone rotola in rete stancato dall’afa soffocante di Los Angeles, spinto dall’intervento tragicomico di Andrés Escobar. Quell’autogol è il colpo di grazia che accompagna la nazionale sudamericana fuori dal torneo. Intendiamoci, calcisticamente non è più grave della sconfitta subita nella partita precedente contro la Romania degli sconosciuti. Tecnicamente, quella diagonale in ritardo e quella scivolata dilettantistica non sono peggio dell’uscita sconsiderata di Óscar Córdoba, sostituto di Higuita (al tempo in carcere per essere stato il mediatore in uno dei tanti sequestri nel paese sudamericano). Quell’intervento di Escobar è, però, l’esempio di come gli errori possano diventare imperdonabili quando la malavita è parte del ballo e dell’orchestra.
L’inutile successo contro la Svizzera è l’ultimo saluto prima i ragazzi di Francisco Maturana rientrino in patria. Secondo le ricostruzioni più attendibili, pochi tifosi aspettarono la selezione all’aeroporto – tutti erano in attesa di una reazione, di un evento ineluttabile che segnasse definitivamente il passaggio di consegne fra il cartello di Medellin (orfano del suo capostipite da pochi mesi) e quello di Calì. Tensione e imbarazzo erano riservate soprattutto a Escobar, capro espiatorio della brutta figura negli Stati Uniti. Sarà poi riportato che nei giorni che precedettero l’assassinio, il difensore passò di locale a locale, forse per cercare il conforto degli amici di Medellin, forse per lasciarsi andare e liberare la mente, forse per qualsiasi altra ragione.
L’epilogo si compie la notte del 2 luglio. Andrés Escobar s’intrattiene con amici, amiche e conoscenti al ‘Padua’, una delle più note discoteche della città. Alle 3.45, abbandona la compagnia, si getta solitario nella notte come un poeta esistenzialista martoriato dal peso di un autogol che ha tutto il sapore di una condanna. In pochi minuti, raggiunge il parcheggio dell’ennesimo club, El Salpicón. Qui, probabilmente inebetito dall’alcol, litiga con due uomini. Alcuni parlano di un diverbio calcistico con tifosi delusi ed eccitati; altri, fanno intendere da subito che si tratta di soggetti legati al cartello di Calì. Non passa molto, la questione sembra risolta, ma non è cosi semplice pulirsi dalle “colpe” in uno dei paesi con il tasso di violenza più alto del pianeta.
Dopo pochi istanti, nel buio del parcheggio rimbombano sei colpi d’arma da fuoco. Humberto Muñoz Castro – anonimo agente di sicurezza – fredda il difensore della nazionale. Il corpo rimane a terra immobile, inutile la corsa verso l’ospedale. Come spesso accade, la morte è l’unica anticamera per l’indignazione generale. Ai funerali del calciatore partecipano 120.000 tifosi e una schiera di figure istituzionali che denunciano pubblicamente il dramma dell’ingerenza del malaffare nel mondo del pallone. Parole e accuse che si lasciano presto dimenticare nelle aule dei tribunali tanto quanto negli uffici che contano.
Processi e verità sul narcofutbol
L’assassino materiale del difensore colombiano viene condannato a 43 anni di carcere; convertiti in 26 dopo la riforma del codice penale del 2001; scontati a 11, nel 2005, al termine di una sentenza controversa. Sui presunti mandanti s’indaga in qualche modo, perlopiù tiepidamente: questione difficile, potrebbe essere chiunque, non ci sono prove, non è dato sapersi. Alla fine, per quella vicenda viene processato e poi assolto Juan Santiago Gallon Henao – boss del cartello di Calì e finanziatore dei ‘Los Pepes‘ gruppi paramilitari che terrorizzano le province settentrionali del Paese. Il movente è quello del calcio scommesse, la sentenza lo scagiona.
Henao ha visto le porte del carcere chiudere e riaprirsi un altro paio di volte in questi ultimi vent’anni: la giustizia ha avuto sempre un occhio di riguardo nei suoi confronti. Oggi, un’altra opportunità per fare luce su quella vicenda tanto quanto sui rapporti passati, presenti e futuri fra calcio e narcotraffico capita nelle mani delle istituzioni statali e sportive. Il 17 gennaio 2018, il latitante è stato catturato al confine con il Venezuela. L’accusa è di traffico internazionale di cocaina, le carte da poter scoprire sono molte di più: l’industria calcio ha un’opportunità in più per creare anticorpi resistenti al malaffare.