Il mondo della boxe è uno dei bacini con sportivi-criminali più ampio. Le origini umili della maggioranza dei campioni; l’ambiente competitivo e romanzesco di manager ed entourage che approfittano economicamente dei loro atleti; l’aggressività innata, genetica, del pugile: si possono trovare diverse motivazioni al dato statistico secondo cui, malgrado il numero di praticanti non eccezionale, sono molti i boxeur finiti in carcere. Fra questi, però, pochi sono stati condannati all’ergastolo per omicidio. Il più noto è Rubin Carter, meno conosciuto è invece Esteban De Jesús.
La storia di ‘Hurricane’ Carter ce l’ha cantata Bob Dylan, è stata raccontata da romanzi e film. Rimane un esempio di ingiustizia giudiziaria, sociale e politica. Il puglie nero, accusato e condannato per il triplice omicidio del Lafayette Grill, scontò diciannove anni di pena prima che le corti si assumessero la responsabilità dei propri peccati ribaltando le sentenze precedenti.
Non ci sono errori giudiziari a riabilitare la memoria di De Jesús. Non c’è odio razziale e nemmeno qualche elemento che ci faccia pensare che sia stato vittima delle circostanze, se non il fatto di essere cresciuto in uno dei paesi con il più alto indice di criminalità e violenza.
Il Portorico e la boxe
Agli inizi degli anni cinquanta, il Portorico e i portoricani cercavano di emanciparsi dal controllo statunitense che durava dallo sbarco di Guanica del 1898, conseguenza della guerra ispano-americana. Dopo le concessioni politiche avviate da Truman sul finire degli anni quaranta, l’isola caraibica provava a convertire la propria economia puntando sulle industrie.
Esteban De Jesús nasce nel 1951, il 2 Agosto, quello in cui crescerà sarà un ambiente in trasformazione in cui agricoltori e pescatori si ritrovano a fare i conti con la crescente urbanizzazione e nuovi stili di vita.
Al pari delle altre isole di quella parte di Atlantico, anche in Portorico la boxe era (ed è tutt’oggi) uno degli sport più praticati. Naturale dunque che il giovane Esteban si avvicini al ring e inizi a frequentare l’ambiente. Le qualità non fanno fatica a emergere: nel 1969, fa il suo esordio fra i grandi e in tre round manda al tappeto il suo avversario, tale El Tarita, siamo sul ring di San Jose.
A 21 anni il pugile ha già uno score di 33 incontri vinti e una sola sconfitta; è conosciuto in tutta l’Isola e ha un ottimo seguito di fans. Negli anni settanta, a differenza di Cuba in cui non esiste lo sport professionistico e i migliori pugili sono spesso costretti a esiliare, il Portorico è ancora molto vicino politicamente agli Stati Uniti. Le opportunità per farsi conoscere dal mondo dello sport dunque non mancano.
La carriera di De Jesús
De Jesús sfrutta nel migliore dei modi la sua occasione nel 1972. Di fronte al pubblico del Madison Square Garden di New York. Il peso leggero si incontra per la prima volta con il campione panamense Roberto ‘Mano de Piedra’ Duran. I due hanno la stessa età e provengono dalla stessa cultura pugilistica, la differenza sostanziale è che Duran ha già la corona WBA in vita e non potrà perderla quella sera perché nessuno dei due lottatori ha rispettato il limite di peso. L’incontro non è dunque valido per il titolo.
De Jesús, pantaloncini a righe verticali azzurre e bianche che ricordano la bandiera del suo paese, aggredisce il campione dalla prima ripresa. È più rapido, gira attorno all’avversario e colpisce. Dopo meno di un minuto, Duran è già schiena atterra e la tendenza non cambia per tutto l’incontro. De Jesús non porta a casa il titolo ma si fa conoscere a livello internazionale e avvia la sua carriera verso il successo.
La rivincita, questa volta valevole per la corona, arriva nel 1974. Il portoricano parte forte ancora una volta e ancora una volta manda giù Duran nella prima ripresa. A differenza dell’incontro precedente però, il panamense reagisce e chiude l’incontro per KO tecnico all’undicesimo round.
La prima cintura arriverà nel 1976. De Jesús combatte per il titolo WBC contro Guts Ishimatsu. Il verdetto dei giudici consegna al ragazzo portoricano la corona, il meritato riconoscimento di fronte al mondo della boxe al termine di 15 riprese.
La partita conclusiva con Duran si gioca nel 1978, i due caraibici combattono per il titolo unificato WBA/WBC, al Cesar Palace di Las Vegas. L’incontro segue la falsa riga dei precedenti: De Jesús, più rapido, gira intorno all’avversario, gli concede il centro del quadrato. Duran lascia andare meno colpi ma più potenti. Dodici riprese estenuanti.
Nel corso dell’ultimo assalto, il pugile di Panama infila un dritto in controtempo, fulmineo. De Jesús, finisce atterra contro le corde. Prova a continuare ma ormai non può più vedere nulla. Altri tre, quattro colpi violenti prima di lasciarsi cadere definitivamente. È l’ultimo ballo prima del disperato tentativo fallimentare di affermarsi nei superleggeri. De Jesús si ritirerà a 29 anni, sufficientemente ricco, ma non abbastanza per condurre lo stile di vita a cui era stato abituato.
Il crimine, la droga e la condanna
Lasciato il ring da poco più di un anno, De Jesús trascorre la sua pensione sportiva sull’isola d’origine. Fa uso di droga, tanta, poca, non si sa. Quello che si sa è che non può limitarsi a essere un semplice consumatore. Ha bisogno di soldi, ha combattuto troppo poco per vivere di rendita e non può fare affidamento sulle entrate delle occupazioni più comuni per permettersi il suo standard di vita.
La seconda parte della camaleontica esistenza di Esteban De Jesús è dedita al traffico di stupefacenti, in piena tradizione ‘gangsta latino’. Nei primi anni ottanta, i cartelli colombiani e messicani e le gang nelle grandi città statunitensi incominciavano a consolidare le basi di una vera e propria cultura panamericana del narcotraffico.
A corollario dei reati erano ormai ampiamente condivisi veri e propri stili di vita i cui valori più semplici erano i soldi, la lealtà verso i propri fratelli, il timore di Dio e solo di Dio, il potere e una sorta ‘machismo’ sessista. Per sponsorizzare questa tendenza servivano simboli popolari che potessero far breccia nello spirito delle nuove generazioni. Nulla di meglio di un campione del pugilato amato dalla sua gente.
È il giorno del ringraziamento del 1981, De Jesús si è appena fatto un’iniezione di cocaina e si prepara per un incontro d’affari con Roberto Cintron Gonzales: uno spacciatore diciassettenne. Arrivato all’appuntamento, qualcosa va storto: ammanchi, un litigio, il sangue fa presto ad arrivare alla testa. Da un momento all’altro, Esteban De Jesús impugna la pistola e spara in testa al ragazzo. Lo lascia atterra, questa volta senza tirare pugni. Alcuni pensano si sia trattato di un incidente. Difficile da dirsi, fatto sta che il pugile viene condannato all’ergastolo.
Il carcere fra sport e fede
In meno di due anni, De Jesús passa dai riflettori del Cesar Palace alle carceri portoricane, un ambiente che non vale la pena immaginarsi. Qui cambia un’altra volta la sua vita, sempre grazie allo sport, non la boxe ma il baseball, diffusissimo a quelle latitudini. Per tre anni consecutivi entra a far parte della squadra all stars del sistema penale portoricano. Anche grazie al suo contributo la selezione del sistema carcerario diviene fra le più forti nel lega del Paese.
Gli anni trascorrono lenti, lasciano il tempo per riflettere sulla propria esistenza, una riflessione che avvicina De Jesús alla fede: un predestinato a leggere il nome. L’ex pugile, ex narcotrafficante ed ex giocatore di baseball prende i voti e diventa prete, è il 1984. Passerà poco tempo prima che si accorga della malattia.
La morte di De Jesús
Esteban è ormai un predicatore cristiano, convertito, pentito ma non per questo graziato dal sistema giudiziario. Continua a scontare la sua pena, a ricercare il suo equilibrio e, forse, il perdono. Malgrado l’avvicinamento a Dio più o meno sincero, non ci sembra essere pace per lui sulla Terra.
Nella metà degli anni ottanta muore per AIDS uno dei suoi più cari amici, Enrique, un ragazzo con cui il pugile era solito condividere vizi, passioni e siringhe. Le analisi confermano la sieropositività e i sintomi della malattia non tardano a mostrarsi. Debilitato, bisognoso di cure e vicino alla fine, De Jesús ottiene il perdono del Governatore Rafael Hernandez Colon. Trascorrerà gli ultimi giorni della sua brevissima vita a casa, vicino ai suoi affetti.
In quelle ore passate fra stati di lucidità e febbri, una schiera di personaggi pubblici portoricani accorre per rendergli omaggio. Il campione di baseball Orlando Cepeda, il ballerino e maestro di Salsa Cheo Feliciano, condividono la stanza con i compagni più affezionati del boxeur.
Uno dei momenti più toccanti viene immortalato dal fotografo José Torres. Poco prima che De Jesús si spenga, Roberto “Mano de Piedra” Duran irrompe ancora una volta nella sua vita, varca la soglia della sua camera da letto. I due non si conoscono. Fatta eccezione per i pugni che si sono scambiati anni prima negli Stati Uniti, non hanno mai avuto contatti.
Duran si avvicina al corpo ormai quasi del tutto perso, lo abbraccia lo solleva, vorrebbe rianimarlo, vorrebbe fargli rialzare la guardia. Fra le lacrime di chi sa che deve arrendersi, Duran bacia il suo avversario, forse il migliore dopo Sugar Ray. Il campione si strugge come ad andarsene fosse un fratello che come lui ha sofferto. Esteban De Jesús morirà il 12 Maggio del 1989, a 37 anni.