Fondo sovrano saudita tra calcio, sport e affari: cos’è e quanto vale la cassaforte di bin Salman

Il fondo sovrano saudita da oltre 700 miliardi di dollari punta a diventare protagonista del calcio mondiale con acquisti mirati e ambiziosi progetti.

L’Arabia Saudita ha deciso di investire pesantemente nello sport occidentale, in particolare nel calcio, con l’obiettivo di acquisire visibilità e influenza a livello globale. Questa strategia è stata resa possibile dall’enorme disponibilità economica garantita dal fondo sovrano saudita, un veicolo finanziario creato per gestire gli investimenti derivanti dalle rendite petrolifere. Durante l’estate, grazie a questi fondi pressoché illimitati, sono stati acquistati campioni e allenatori di primo piano, stravolgendo gli equilibri del calciomercato e del campionato locale. Un intervento senza precedenti, che ha permesso ai sauditi di imporsi come nuova forza trainante del pallone mondiale.

Il fondo sovrano Public Investment Fund (PIF) è la chiave di volta del piano di modernizzazione dell’Arabia Saudita orchestrato dal principe ereditario Mohammed bin Salman. Con una disponibilità di oltre 700 miliardi di dollari, il PIF mira a ridurre la dipendenza saudita dal petrolio investendo massicciamente in tecnologia, turismo e sport a livello globale. L’ingresso nel calcio rientra in questa strategia espansionistica che punta a rafforzare l’influenza saudita nel mondo. Tuttavia, l’utilizzo di fondi pubblici da parte di una monarchia autoritaria per acquisire asset strategici in paesi democratici ha sollevato legittime preoccupazioni etiche e geopolitiche. Il ruolo del PIF è quindi controverso: volano per la modernizzazione o strumento di soft power per erodere valori democratici?

Il Public Investment Fund dell’Arabia Saudita è il classico esempio di fondo sovrano alimentato da ricchezze petrolifere. Costituito nel 1971, ha accumulato ingenti risorse grazie ai surplus fiscali derivanti dalle entrate del settore energetico. Come avviene per i fondi sovrani delle monarchie del Golfo, il PIF impiega questa enorme liquidità, frutto di decenni di rendite petrolifere, in investimenti in azioni, obbligazioni e immobili con l’obiettivo di diversificare l’economia saudita. Il calcio rientra a pieno titolo in questa strategia: attraverso il pallone, i petrodollari sauditi mirano ad acquisire visibilità e influenza a livello globale, riducendo al contempo la storica dipendenza del paese dall’oro nero.

L’espansione nel mondo del calcio fa parte di una strategia ancor più ampia del Public Investment Fund saudita, che punta a diventare il principale fondo sovrano a livello globale. Attualmente al sesto posto con asset stimati in oltre 700 miliardi di dollari, il fondo di investimento saudita ha obiettivi di crescita estremamente ambiziosi: 1.000 miliardi entro il 2025 per poi raddoppiare ulteriormente entro il 2030, superando così il colosso norvegese e sua maestà il petrolio. Questa gigantesca disponibilità economica consentirà ai sauditi di espandersi in tutti i settori strategici, calcio compreso. I petrodollari di Ryad stanno già ridisegnando gli equilibri del pallone, ma in futuro il fondo sovrano potrebbe dettare legge su scala globale.

Il Public Investment Fund rappresenta la punta di diamante della “Vision 2030”, il piano di modernizzazione dell’Arabia Saudita lanciato dal principe ereditario Mohammed bin Salman. Sebbene sia gestito dall’ex banchiere Yasir al-Rumayyan, il fondo risponde direttamente al principe, che ne presiede il CdA composto interamente da ministri del governo. L’obiettivo è investire i proventi petroliferi per diversificare l’economia saudita entro il 2030, riducendone la storica dipendenza dall’oro nero. I miliardi del PIF vengono quindi impiegati per acquisire partecipazioni strategiche in vari settori, tecnologia, turismo e sport inclusi. Il calcio rientra in pieno nel disegno di bin Salman di affermare l’Arabia Saudita come potenza globale a tutto tondo.

L’ascesa del Public Investment Fund saudita è intimamente legata alla ricchezza petrolifera del paese. Con il 17% delle riserve mondiali, l’Arabia Saudita è la seconda potenza energetica globale e la sua economia dipende ancora in larga parte dall’export di greggio. È proprio sfruttando questa rendita che il fondo sovrano sta accumulando enormi risorse da reinvestire per diversificare il paese ed emanciparlo dall’oro nero. Il petrolio ha garantito a Ryad un ruolo chiave nelle politiche energetiche mondiali, spesso controverso. Ora una parte di quei petrodollari vengono convogliati nel pallone, con l’obiettivo di estendere l’influenza saudita anche allo sport e al calcio in particolare. Il fondo sovrano è lo strumento ideale per questa espansione.

Il dominio saudita nel settore petrolifero globale è indiscusso. Con il 17% delle riserve mondiali, l’Arabia Saudita è il player chiave all’interno dell’OPEC+, il cartello che riunisce i principali paesi produttori di greggio. La capacità di Ryad di influenzare i prezzi attraverso la gestione della produzione le consente di ostacolare la transizione energetica, rallentando l’abbandono delle fonti fossili. Non a caso, metà del PIL saudita deriva dagli idrocarburi. Da qui l’interesse a preservare questo business il più a lungo possibile, nonostante gli investimenti del PIF nelle rinnovabili. I petrodollari rimangono vitali per la monarchia, che ora ne convoglia una parte nello sport per emanciparsi dalla rendita petrolifera. Tuttavia, finché il petrolio sarà così centrale per l’economia saudita, difficilmente il paese favorirà una svolta green rapida e decisiva.

La dipendenza dal petrolio è un’arma a doppio taglio per l’Arabia Saudita. Da una parte garantisce immense rendite, dall’altra espone il paese alle fluttuazioni dei mercati energetici e al rischio di rimanere con il cerino in mano quando le riserve si esauriranno. Per questo il principe ereditario Mohammed bin Salman punta a diversificare l’economia, seguendo la rotta tracciata da altri paesi esportatori di idrocarburi. Il fondo sovrano PIF è lo strumento chiave di questa strategia: investendo i proventi petroliferi in altri settori strategici come tecnologia, turismo e sport, i sauditi mirano a costruire fonti alternative di reddito e influenza globale. Il calcio è solo una delle tessere di questo mosaico volto a emancipare il regno dagli idrocarburi, anche se il percorso appare ancora lungo.

Attraverso il fondo sovrano PIF, l’Arabia Saudita sta investendo massicciamente per diversificare la sua economia, troppo dipendente dal petrolio. Miliardi di dollari vengono pompati in settori strategici nazionali come banche, costruzioni, telecomunicazioni e trasporti aerei, con la recente nascita della compagnia Riyadh Air. L’obiettivo è rilanciare anche il turismo, portandolo al 10% del PIL entro il 2030. Un traguardo ambizioso se non utopistico per un paese prevalentemente desertico, considerando che in Italia il turismo vale il 6%. Gli investimenti all’estero mirano invece ad acquisire know-how e asset nevralgici, dalla tecnologia allo sport. Il calcio rientra in questa strategia di espansione globale volta a preparare il “dopo petrolio”. Ma sganciare una monarchia millenaria dall’oro nero non sarà un’impresa facile.

Il progetto futuristico di Neom, la città del domani che dovrebbe sorgere tra Arabia Saudita, Giordania ed Egitto, rappresenta la massima espressione della “Vision 2030” di Mohammed bin Salman. Una metropoli ideale estesa su 26.500 kmq, il cui nome fonde greco e arabo per significare “nuovo futuro”. Nonostante l’entusiasmo del governo, la costruzione di Neom ha però subito pesanti ritardi, tra scetticismo e perplessità degli osservatori. Il cantiere procede a rilento, tra mille difficoltà. Neom sembra più un miraggio che una concreta opportunità di rilancio dell’economia saudita. Anche nel calcio, i sogni di gloria del fondo PIF e del principe ereditario rischiano di infrangersi contro i limiti di un paese ancora profondamente dipendente dal petrolio e poco attrattivo per investitori e turisti stranieri. Servono ben altre riforme per scrollarsi di dosso il retaggio petrolifero.

I petrodollari del Public Investment Fund stanno ridisegnando il volto dell’Arabia Saudita, tra progetti futuristici e acquisizioni strategiche anche nello sport. Ma il rovescio della medaglia è rappresentato dalle gravi violazioni dei diritti umani che accompagnano questa metamorfosi. Per far posto a città utopiche come Neom o ad infrastrutture legate ai mondiali di calcio, interi villaggi vengono rasi al suolo, tra proteste e repressioni. Le Nazioni Unite riportano esecuzioni capitali e uccisioni di attivisti contrari a sfratti forzati. Il pallone rischia di essere l’abito di un re nudo. I sauditi vogliono emanciparsi dal petrolio, ma il rispetto dei diritti è imprescindibile per essere credibili sulla scena globale.

L’ascesa del fondo sovrano saudita e la sua espansione nello sport sollevano inquietanti interrogativi etici. L’Arabia Saudita figura nella lista nera di Amnesty International per sistematiche violazioni dei diritti umani, essendo una delle monarchie più repressive al mondo. Ogni dissenso viene brutalmente sedato in un paese che concede pochissime libertà. Lo sportwashing non può cancellare décenni di autoritarismo e soprusi. Finché in Arabia Saudita non ci sarà una vera apertura democratica, con la fine di ogni forma di repressione, l’operato del fondo sovrano sarà visto con sospetto dall’opinione pubblica internazionale. I petrodollari da soli non possono comprare credibilità.

I tentativi del principe ereditario Mohammed bin Salman di ammodernare l’immagine dell’Arabia Saudita cozzano con la dura realtà di un regime autocratico che reprime ogni dissenso. Lo conferma l’efferato omicidio del giornalista Jamal Khashoggi su mandato dello stesso principe, secondo molte ricostruzioni. Le violazioni dei diritti umani proseguono impunemente, nonostante le condanne di ONG come Amnesty e HRW che invocano l’abolizione della pena di morte, ampiamente applicata. Anche paesi occidentali come USA e Francia hanno stigmatizzato le sistematiche repressioni del dissenso. In questo contesto, l’acquisto di club di calcio appare un inutile maquillage. Finché in Arabia Saudita persisteranno negazioni di diritti fondamentali, nessun investimento nello sport potrà ripulire l’immagine del regime agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.

Gli investimenti all’estero del fondo sovrano saudita PIF destano crescenti preoccupazioni per il rischio di ingerenze indebite. L’ascesa di una monarchia repressiva come l’Arabia Saudita in settori strategici delle democrazie occidentali è vista con sospetto dall’opinione pubblica. Il timore è che i petrodollari possano ampliare l’influenza globale di Ryad, nonostante le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime con la connivenza del principe ereditario. L’acquisto di club di calcio rientra in questa strategia di potere che minaccia di minare dall’interno i valori delle società aperte. Lo sport non può essere il paravento dietro cui nascondere autoritarismo e negazione delle libertà individuali.

Gli investimenti del fondo sovrano saudita PIF nelle tlc europee destano non poche preoccupazioni geopolitiche. Attraverso la controllata STC, il PIF sta per acquisire una quota del 10% in Telefónica, colosso spagnolo delle telecomunicazioni. Inoltre i sauditi sono entrati nel capitale di Vantage Towers, una delle principali infrastrutture di rete del vecchio continente, ceduta da Vodafone a un consorzio di fondi tra cui il PIF. L’ingresso dell’Arabia Saudita in un settore critico come quello delle tlc in Europa solleva interrogativi sull’opportunità di concedere un tale potere ad un regime dalla pessima reputazione sui diritti umani. La presenza del fondo sovrano di Ryad nelle telecomunicazioni del nostro continente rischia di esporre informazioni sensibili ad un paese poco trasparente e dai metodi spicci. Un conto è investire nel calcio, un altro è minare le fondamenta delle democrazie liberali.

Il fondo sovrano saudita sta cercando di ripulire la propria immagine con operazioni di greenwashing, ossia ambientalismo di facciata. Da un lato investe in rinnovabili all’estero attraverso la controllata ACWA Power, stretta accordi con Eni, A2A e Confindustria sull’idrogeno verde. Dall’altro possiede il 60% di Lucid Motors, produttore USA di auto elettriche che aprirà uno stabilimento in Arabia Saudita. Iniziative apprezzabili ma che non possono cancellare il ruolo di Ryad nel ritardare la transizione energetica globale attraverso la sua influenza nell’OPEC+. Finché i sauditi controlleranno i rubinetti del petrolio, ogni sforzo nelle rinnovabili sarà solo un’operazione di immagine, volta a distogliere l’attenzione dalla dipendenza del regno dall’oro nero. Anche nel calcio, l’ambientalismo di facciata non basta: servono i fatti.

Il fondo sovrano saudita sta investendo massicciamente anche in settori ad alto impatto mediatico come la tecnologia e l’intrattenimento. Oltre a partecipazioni in colossi come Meta, Microsoft e PayPal, il PIF possiede quote di Uber e Starbucks ed è entrato nel capitale di big della finanza come JP Morgan e BlackRock. Ma è soprattutto nell’intrattenimento che Ryad vuole accrescere la propria influenza: il PIF è il maggior azionista straniero di Nintendo e ha partecipazioni in Activision e EA nel mondo dei videogiochi. E nello sport, con l’acquisto del Newcastle in Premier League, prepara il terreno a futuri colpi per imporsi come potenza globale a tutto campo. L’obiettivo è chiaro: sfruttare l’appeal di calcio e videogames per ripulire l’immagine del regime agli occhi dell’opinione pubblica, soprattutto quella più giovane.

L’Arabia Saudita punta a imporsi come potenza calcistica globale sfruttando l’illimitata disponibilità di petrodollari del fondo sovrano PIF. La Saudi Pro League è ancora un campionato di secondo piano, ma ingaggi faraonici stanno attirando campioni a fine carriera dall’Europa, col chiaro obiettivo di accelerare la crescita del movimento. L’ambizione di Ryad è trasformare in pochi anni la lega locale in un torneo competitivo e appetibile per i top player mondiali, una valida alternativa ai campionati europei grazie al potere dei petrodollari. Questa strategia di sportswashing punta a ripulire l’immagine del regime agli occhi dell’opinione pubblica globale.

Le 4 big del calcio saudita controllate dal fondo sovrano PIF stanno letteralmente sconvolgendo il calciomercato con acquisti faraonici resi possibili dall’inesauribile disponibilità di petrodollari. Solo per citare alcuni colpi: CR7 all’Al-Nassr con 200 milioni in 2 anni, Benzema all’Al-Ittihad per 200 milioni in 2 stagioni, Kantè sempre all’Al-Ittihad per 100 milioni in 4 anni, Neymar all’Al-Hilal con 300 milioni per 2 anni. Numeri stratosferici che stanno attirando i campioni europei in Arabia Saudita e che presto potrebbero trasformare la Saudi Pro League in un campionato di primissimo piano. Ma solo il tempo dirà se questa strategia di sportswashing sarà vincente o finirà per arenarsi.

L’assalto dell’Arabia Saudita al mondo dello sport prosegue a ritmo serrato. Dopo i colpi di mercato nel calcio, con Roberto Mancini come ct della nazionale, il fondo sovrano PIF ha creato la sussidiaria SRJ Sports Investments per gestire i crescenti investimenti in altre discipline. Oltre alla Formula 1, dove Ryad ospita ormai un GP, fioccano sponsorizzazioni e acquisti di diritti in golf, rally, arti marziali.

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Gli investimenti sauditi nello sport, con stipendi fuori mercato per campioni del calcio, appaiono privi di una reale logica economica. In un campionato ancora minore come la Saudi Pro League, certo non ripagheranno sul piano finanziario. L’obiettivo sembra piuttosto politico: sfruttare la popolarità globale dello sport per ripulire l’immagine di un paese criticato sui diritti umani. Un classico caso di sportswashing, sul modello dei Mondiali in Qatar.

A proposito di Cristian La Rosa

Cristian La Rosa. Classe ’76, ama il calcio e lo sport in generale. Segue con passione il calcio internazionale e ha collaborato con alcuni web magazine. È il fondatore, ideatore ed editore.

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