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Guinness dei primati: via un record di Messner, ecco perché

L’impresa che sembrava impossibile: salire le 14 vette senza aiuti artificiali. Ma Messner, a quanto pare, si è fermato a un passo dalla vetta di una cima.

Reinhold Messner è stato per decenni considerato un mito vivente dell’alpinismo, avendo raggiunto una serie di traguardi che sembravano impossibili. Salire tutte le 14 montagne della terra oltre gli 8000 metri, in puro stile alpino e senza l’ausilio di bombole d’ossigeno, era un’impresa titanica che lo aveva consegnato alla leggenda. Ma anche le leggende possono vacillare.

Un’inchiesta giornalistica ha recentemente gettato ombre sulla scalata di Messner all’Annapurna nel 1970, dove pare si sia fermato a pochi metri dalla vetta. Un dettaglio sufficiente perché il Guinness dei Primati gli revocasse il record, assegnandolo invece allo statunitense Edmund Viesturs come primo a salire i 14 ottomila.

Messner si è detto indifferente alla revisione, ribadendo di non aver mai scalato per i record ma per la montagna. Ma il mondo dell’alpinismo è scosso nel mettere in discussione un’impresa considerata irraggiungibile.

La recente decisione del Guinness dei Primati su Messner ha lasciato molti appassionati di alpinismo perplessi e contrariati. Togliere a Messner il record di prima ascensione degli 8.000 in stile alpino per un mero tecnicismo appare ai più ingiustificato e fuori luogo.

È innegabile che sia stato l’alpinista sudtirolese il pioniere di un’impresa titanica, aprendo la strada verso vette considerate irraggiungibili senza l’aiuto dell’ossigeno. Un singolo metro di differenza sulla vetta dell’Annapurna nulla toglie al suo straordinario primato.

Lo stesso Viesturs, l’uomo a cui è stato attributo il record, si è schierato al fianco di Messner, ribadendone i meriti e l’autenticità della sua leggendaria impresa. Le cime non mentono, e quelle salite per la prima volta da Messner conservano intatto il segno del suo passaggio. La storia dell’alpinismo non può prescindere dall’uomo che per primo scalò gli 8.000 metri.

La reazione di Messner alla revisione del suo record è emblematica del suo approccio unico all’alpinismo. L’alpinista sudtirolese non ha mai visto la montagna come un palcoscenico per primati da infrangere, bensì come una sfida personale, una ricerca interiore più che una gara.

La concezione agonistica e acritica del record fine a sé stesso è sempre stata estranea a Messner. La montagna rappresenta ben altro. Per questo, con coerenza e orgoglio, egli rifiuta oggi il possibile reintegro di un primato che non ha mai ritenuto significativo. Ciò che conta è l’impresa compiuta, al di là di riconoscimenti e classifiche.

Questa profonda motivazione interiore è ciò che ha permesso a Messner di spingersi dove nessun altro osava. I 14 ottomila da lui scalati senza ossigeno restano un’icona dell’alpinismo mondiale, al di là di mere questioni formali. La montagna premia lo spirito, non le graduatorie.

L’alpinismo è uno sport che si fonda sull’etica oltre che sull’impresa fisica. Le recenti revisioni storiche ad opera di Jurgalski, seppur accurate dal punto di vista documentale, rischiano di travisare lo spirito che anima gli scalatori.

Cime inviolate per secoli, avverse condizioni meteorologiche, incertezze topografiche: sono tutti elementi che costringono spesso a fermarsi a pochi metri dalla vetta. Ma contano davvero quegli ultimi passi, se è stato già compiuto l’impossibile?

Gli alpinisti himalayani hanno aperto la strada verso mete remote e proibitive. Il loro valore sta nell’aver osato, non nell’aver “timbrato” la cima. È una questione di etica, più che di record. Le montagne scelgono i loro conquistatori per motivazioni profonde, non per mere classifiche.

Riscrivere la storia rischia di travisarne lo spirito. L’alpinismo è qualcosa che va oltre la vetta, è un cammino interiore. E di quei cammini, gli alpinisti del passato restano pionieri indimenticabili.

La questione sollevata da Jurgalski pone interrogativi profondi sulla natura stessa dell’alpinismo himalayano. Cime immense, dalle vette complesse e impervie, pongono sfide uniche agli scalatori. Raggiungere la cima più alta può diventare arduo, quando creste insidiose e dislivelli minimi rendono incerta l’identificazione del punto culminante.

Ma è davvero questo l’obiettivo? Per molti alpinisti la vetta è soprattutto una méta spirituale. La montagna va affrontata con rispetto, senza la presunzione di “conquistarla”. Incastonate in paesaggi remoti e maestosi, quelle cime sono bien più che semplici gradini di una classifica.

Forse, più che di record, varrebbe la pena parlare di “impresa”. L’impresa di scalatori che hanno osato l’inosabile, aprendo la strada ad altri. Definire rigidi criteri di successo rischia di tradire lo spirito profondo che anima ogni vero alpinista. Perché a muoverlo non è la gloria, ma una sfida interiore ben più importante.

L’alpinismo non è una gara, ma un cammino. Un percorso interiore, prima che una competizione. È questa la convinzione profonda che anima gli alpinisti della vecchia scuola.

Conta davvero se la vetta è a un metro o a cinquanta? Per chi vive la montagna come una ricerca del sé, come una sfida etica oltre che fisica, quei metri sono irrilevanti. L’impresa sta nell’aver osato, nell’essersi spinti dove pochi umani hanno osato.

Le vette non sono gradini di un podio, non esistono primi o secondi. Ogni alpinista compete solo con se stesso, con i propri limiti. La montagna è un percorso individuale, non ha senso ridurla a una gara.

Forse oggi l’agonismo prevale troppo sull’etica. Ma il richiamo delle vette è immutato nei secoli: non premia chi arriva primo, ma chi arriva con lo spirito giusto. Con rispetto, umiltà e voglia di scoperta. Sono queste le doti di un vero alpinista. Il resto è solo vanità.

Messner incarna lo spirito più autentico dell’alpinismo himalayano. Le sue imprese tra gli anni ’70 e ’80 hanno riscritto i confini del possibile, spingendosi dove nessun uomo aveva osato. Ma i suoi trionfi nascono da una profonda motivazione interiore, non dal desiderio di primeggiare.

La montagna per Messner non è una competizione, ma una sfida con sé stesso e con i limiti umani. Le sue ascensioni in solitaria, senza ossigeno, lungo percorsi impensabili, raccontano di un approccio profondamente etico all’alpinismo. L’uomo al centro, non il record.

Questa visione fa di Messner non solo il più grande himalayista di sempre, ma anche l’alfiere di un alpinismo diverso. Che non si riduce a graduatorie o primati, ma guarda alla montagna come maestra di vita. Una lezione che dovrebbe ispirare le nuove generazioni: la vetta è importante, ma il cammino per arrivarci lo è molto di più.

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