George Weah del Milan tenta di saltare due difensori del Parma durante una partita di Serie A giocata il 13 novembre 1995 (Allsport/ALLSPORT)

1° ottobre: auguri a George Weah, perla d’Africa

Sostanza, tecnica, movenze feline: un attaccante che spaccò la serie A. E un personaggio pittoresco fuori dal campo

 

di Stefano Ravaglia

 

Nella sua carriera ha un cruccio: non aver mai giocato un Mondiale col suo paese, la Liberia. Ci andò vicino in una occasione, e raccontò di essere rimasto in un angolo dello spogliatoio a piangere a fine partita. George Ousman Weah, nato il 1° ottobre 1966 a Monrovia, è sempre stato guascone e leggero, talmente istrionico che fa specie vederlo piangere in uno spogliatoio.

Oggi compie cinquantatré anni, e lo fa da presidente del suo paese, eletto non senza qualche patema, nel gennaio 2018. L’intelligenza calcistica applicata alla politica, in un uomo che aveva già le idee chiare su quello che avrebbe voluto fare dopo il pallone, e ci è riuscito. Lui che proviene da una delle zone più povere della Liberia e crebbe in una baraccopoli lavorando successivamente come centralinista delle telecomunicazioni liberiane, prima che il calcio lo salvasse.

Monaco, Paris Saint-Germain e poi, nell’aprile 1995, l’annuncio in anticipo dell’acquisto da parte del Milan di Capello. Che in attacco era un po’ spelacchiato: tramontato Van Basten e prima di lui gli altri olandesi, il piatto piangeva. Weah lo riempie subito al suo primo anno: non è mai stato un grande goleador, ma se è vero che i gol si contano o si pesano, i suoi certamente appartengono alla seconda categoria. Undici gol nel 1995-96, con alcuni macigni impossibili da spostare: il gol all’esordio a Padova, la doppietta alla Roma, il gol alla Juventus, il colpo da maestro alla Lazio, sempre all’Olimpico, il gol a Bergamo contro l’Atalanta dopo due minuti. Vittorie di misura, com’era nello stile capelliano, ma con movenze feline che portano il quindicesimo scudetto e a lui il primo pallone d’oro non europeo, accompagnato dal Fifa World Player. Questo era infatti “Re George”, come fu soprannominato dai milanisti, che prendeva il pallone con la gioia e la semplicità di uno che la povertà ce l’aveva addosso. Nella decisiva partita con la Fiorentina, il 28 aprile 1996, viene sostituito quando la festa sta già per cominciare, e regala la maglia all’arbitro.

Scarpette rosse, e destò grande scalpore (pensateci un po’ oggi, che sono pure rosa e arancioni), e quelle leve lunghe che non gli impedivano agilità e grande tecnica. Una pantera. E quel saluto: “Ciao a tutti, belli e brutti”. Quasi non sembrava un calciatore. Il secondo anno è ancora più prolifico, 13 reti, ma si prende cinque giornate di squalifica per una gomitata negli spogliatoi a Jorge Costa, giocatore del Porto, avversario del girone di Champions League.

E il Milan è un disastro: undicesimo posto, a momenti fu sfiorata la retrocessione. Torna Capello, Weah cede la 9 a Kluivert, ma forse era meglio se la teneva lui: l’olandese non rinverdisce i fasti dei suoi ex compatrioti e se ne va dopo appena una stagione. Arriva Zaccheroni, e il tridente Boban-Bierhoff-Weah porta al Milan il sedicesimo scudetto. Quando nell’estate di quel 1999 arriva Shevchenko, c’è qualche problema di abbondanza.

“Zaccheroni non è mio amico”, si lascerà scappare Re George. Saluta e se ne va in Inghilterra, prima al Chelsea e poi al Manchester City, dopo aver vinto pochino (nulla a parte quei due titoli dove c’è comunque il suo timbro decisivo) ed essere capitato, per sua sfortuna, in un Milan alla fine di un ciclo e all’inizio di un altro. Da ricordare, l’amicizia fraterna con Marco Simone, che lo ospitò nei suoi primi tempi a Milano.

“Maldini, Baresi, Costacurta, Donadoni…” ecc, ogni tanto, nel suo rap improvvisato, si metteva e recitare i nomi dei suoi compagni. E di un bellissimo Milan, che fa rimpiangere quello odierno. Le movenze feline e la sua allegria, saranno ottimi alleati anche nel suo viaggio diplomatico appena intrapreso. Dove dovrà avere una parola per tutti: belli e brutti.

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