Era il 1981 quando il primo calciatore sovietico si trasferì dallo Zenit Leningrado al Rapid Vienna. Ripercorriamo la carriera del primo ‘legioner’ a militare in una formazione ‘occidentale’.
In molti pensano che i primi giocatori dell’URSS a militare nei principali campionati europei siano quelli a partire dal 1988 in poi, come Jurij Gavrilov ai finlandesi del PPT Pori e Sergej Šavlo al Rapid Vienna, una società che, come scopriremo in seguito, aveva un certo feeling all’epoca con le autorità sovietiche. Quei trasferimenti furono invece solo il preludio per alcune riforme storiche nel paese che da lì a breve avrebbero portato al professionismo nel calcio sovietico.
Erano gli anni 80, quelli in cui le squadre russe potevano dire la loro nelle competizioni europee e mondiali; tempi in cui in Unione Sovietica le tre nuove parole d’ordine erano quelle pronunciate da Michail Gorbačëv nel corso di un congresso del PCUS tenutosi a Mosca tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo del 1986: ‘perestrojka’, ‘glasnost’ e ‘uskorenie’ (ricostruzione, trasparenza e accelerazione). Il segretario del partito, salito al potere nel Marzo del 1985 in un Paese sull’orlo di una crisi si fece promotore di questi cambiamenti, ma da lì a qualche anno rappresentarono soltanto l’inizio del disfacimento di un Impero che consegnò i destini del mondo nelle mani della globalizzazione selvaggia, favorita dalla caduta del Muro di Berlino nel Novembre del 1989.
La fine di quell’epoca si consumò il 20 Agosto del 1991, quando il mondo si svegliò con un ‘golpe’. Boris Eltsin, all’epoca presidente russo, salì su un carro armato davanti al parlamento di Mosca dichiarando che era in atto un colpo di stato organizzato da un gruppo di ‘falchi’ del Partito Comunista e del KGB. Un avvenimento che fermò il percorso della ‘perestrojka’ e l’Unione Sovietica, da lì a qualche mese, venne ufficialmente sciolta il 26 Dicembre, così come la rappresentativa di calcio che, a Euro 92 in Svezia, si presenterà con la denominazione CSI (Comunità degli Stati Indipendenti).
Dalle ceneri cambierà il volto della Russia: basta vederla oggi, tra giovani rampanti e nuovi poveri, una Piazza Rossa di Mosca e dintorni dove spopolano i fast-food americani e magazzini Gum, l’attuale mecca del lusso sfrenato occidentale, mentre sulle strade circolano sempre meno Lada.
Tornando al discorso a noi caro, quello calcistico e in particolar modo all’Italia, il primo nome a cui pensa un tifoso, soprattutto se di fede bianconera, è sicuramente quello Aleksandr Zavarov, il primo calciatore sovietico a militare in Serie A. Giocò due stagioni con la maglia della Juventus, grazie alle buone relazioni politiche dell’”Avvocato” Gianni Agnelli, nate con la fabbrica FIAT a Togliattigrad negli anni sessanta. Quelli erano anni rivoluzionari in tutti i sensi, in cui il mondo del calcio in modo astuto riuscì a mischiarsi con quello politico e grazie alla diplomazia creò i suoi affari.
Ma in pochi ricordano che otto anni prima, un certo Anatolij Alekseevič Zinčenko, classe 1949, fu il primo giocatore a lasciare il suo paese per accasarsi in un club occidentale. Per la precisione era l’autunno del 1980, quando al timone del paese c’era un certo Leonid Brezhnev, colui che volle a tutti i costi ospitare un’Olimpiade a Mosca durante gli anni della cortina di ferro in una nazione risolutamente impenetrabile.
All’epoca nessun giocatore poteva sognare contratti milionari, tantomeno trattare con club stranieri. Eppure qualcosa cambiò, tant’è che il talento siberiano di Novokuznetsk poté stipulare in quell’anno, all’età di 31 anni, un contratto con uno dei club più popolari austriaci, il Rapid Vienna, storicamente vicino al calcio proletario e sostenuto da un’influente giornale di comunisti austriaci che riuscirono ad avviare la trattativa, successivamente andata a buon fine, grazie agli stretti rapporti con il ‘Comitato sportivo statale dell’URSS’.
Perché la scelta del club austriaco ricadde su un giocatore di certo non eccelso se pensiamo che in quel periodo nel campionato sovietico vi giocava un Pallone d’Oro del calibro di Oleh Blochin?
In realtà non si trattò di un semplice caso, ma avvenne grazie a una relazione esistente tra PCA e PCUS. I ‘compagni austriaci’ erano i rappresentanti di quel partito fraterno tanto caro all’Unione Sovietica e desiderosi di avere nel proprio organico un giocatore sovietico d’esperienza e dalla buona reputazione in patria. L’affare andò in porto e il suo status, per far sì che militasse nel campionato austriaco, divenne quello di ingegnere in trasferta all’estero per conto della Soyuzvneshtekhnika. Ogni mese riceveva lo stipendio nella sede della rappresentanza commerciale sovietica, equiparata a una rappresentanza diplomatica.
E pensare che nessuno in patria era a conoscenza di quanto stava per fare: per molto tempo la stampa sovietica cercò di coprire questo avvenimento raccontando che Anatolij si era semplicemente ritirato dalla carriera agonistica.
Una carriera costellata da enormi delusioni
Persa la conquista della Luna, gli anni 70 non furono semplici in Unione Sovietica, un Impero che per molti anni riuscì a nascondere i suoi gravi problemi finanziari armandosi all’inverosimile. Ma nonostante tutto lo sport continuò a lanciare grandi talenti, soprattutto molti ucraini che successivamente diedero vita negli anni 80 alla grande Dinamo Kiev, una squadra innovativa a livello tattico e di successo in Europa, guidata sapientemente dal Colonnello Valerij Lobanovs’kyj, commissario tecnico in tre riprese anche della Nazionale. Fù lui in persona il primo a proporre il professionismo e un sindacato dei calciatori al Comitato Centrale del PCUS. Le sue proposte furono quelle di chiudere con il passato: basta con i club dilettanti dipendenti dall’Esercito o del Ministero degli Interni; sì alle società economicamente autonome.
Nonostante le difficoltà di un’infanzia di certo non agiata, tutt’altro, Zinčenko si appassionò al gioco del calcio e riuscì a mettersi in mostra tra le fila delle giovanili dell’Akademia Rotor nel 1967, per poi esordire nella prima squadra del Volgograd. In molti lo ricordano come un attaccante dal fisico prestante, forte e veloce. Successivamente disputò quattro stagioni incomplete nell’SKA di Rostov, club dove venne arruolato per servire a tutti gli effetti l’esercito sovietico e dove si mise in luce per via di una rete del vantaggio a pochi minuti dal termine nei confronti del più quotato Spartak Mosca, quando le due formazioni si incrociarono nella finale della Coppa dell’URSS (Kubok SSSR, in russo Кубок СССР) il 7 agosto del 1971.
Toccò a Gennady Logofet vestire i panni del killer e a far svanire i sogni del piccolo SKA, quando ormai mancavano una manciata di secondi al triplice fischio. A meno di un minuto dal termine dell’incontro il difensore trovò l’angolo giusto grazie a un colpo di testa senza il quale la coppa nazionale l’avrebbe portata a casa il Rostov. E invece no. Il club che sorge sulla riva destra del fiume Don non riuscì ad evitare la ripetizione del match, dopo che i tempi regolamentari si erano conclusi sul risultato di 2-2. Lo Spartak vinse la ripetizione, disputata il giorno successivo nella notte moscovita per 1-0, grazie alla firma decisiva nella ripresa di Nikolaj Kiselëv che portò la società sportiva fondata da un sindacato operaio a primeggiare in patria per la nona volta.
La delusione per la beffa subita venne presto dimenticata: la sua carriera gli regalò sorprese inaspettate e l’occasione per riscattarsi si presentò nel gennaio del 1972, quando accettò di trasferirsi allo Zenit di Leningrado su consiglio dell’allenatore Evgeni Ivanovich Goryansky. A Leningrado vi rimase inizialmente per tre stagioni, realizzando 23 gol in 99 presenze; poi, a causa di un rapporto burrascoso con il nuovo allenatore German Semenovich Zonin, venne costretto a lasciare il club. In quegli anni esordì con la maglia della Nazionale: avvenne nel 1973 a Belgrado in una amichevole con la Jugoslavia. Sempre in quella annata, il ct Gavriil Kachalin decise di convocarlo per altre due gare amichevoli, a Plovdiv contro la Bulgaria e a Mosca con la Nazionale brasiliana in quelle che rimangono le sue uniche presenza con quella maggiore.
E fù così, tornando al clamoroso addio allo Zenit, che nel 1975 l’attaccante all’epoca 25enne e nel pieno della sua maturità, in un calcio dilettantistico, senza diritti né procuratori, venne costretto ad accettare il trasferimento alla Dynamo Leningrado in seconda divisione; una squadra all’epoca considerata come quella riserve dello Zenit e per lo più composta da giovani promesse o da giocatori ripudiati dal club principale della città.
Nonostante il club versasse in cattive acque sul piano dei risultati, Anatolij riuscì a togliersi diverse soddisfazioni, portandolo a suon di goal in prima divisione e nell’anno seguente, nel 1977, al 13° posto nella stagione in cui vinse la classifica dei marcatori con 19 reti. L’addio di Zonin nel 1979 e l’arrivo in panchina di Yuri Andreyevich Morozov, permise all’attaccante di tornare all’amato Zenit, dove disputò altre tre stagioni. Il suo ritorno non ebbe però gli effetti sperati dall’entusiasmo iniziale della piazza: la sua stella venne presto offuscata da due giovani attaccanti, Vladimir Kazachenok e Vladimir Klementyev, e un paio di sostituzioni all’inizio nel 1980, dopo la delusione di aver speso i migliori anni della sua carriera in seconda divisione, gli fecero capire che fosse giunto il momento di dire addio al calcio.
Rapid Vienna: il trionfo della rinascita
Ma il destino stava per riservargli un’altra inaspettata sorpresa: senza nemmeno capire il come arrivò una chiamata dall’Austria da parte del Rapid quando ormai, all’età di 31 anni, aveva già deciso di smettere con il pallone. Un’occasione da cogliere, una grande un’opportunità a cui non poter dire di no. Inizialmente firmò un contratto annuale per poi ritrovare il piacere di giocare e di rimanervi per un’altra stagione, in una formazione che poteva contare in attacco su Hans Krankl, il più grande giocatore austriaco di tutti i tempi e vincitore di due edizioni della Scarpa d’Oro (1974 e 1978 con 41 goal) e di una Coppa delle Coppe con la maglia del Barcellona nel 1979.
Quella squadra riuscì a conquistare immediatamente il titolo austriaco dopo quattordici anni di astinenza, riuscendo a detronizzare i rivali dell’Austria Vienna, dominatori del torneo da quattro stagioni consecutive. Anche quella successiva fu ricca di soddisfazioni: oltre al bis in campionato si aggiunse una Coppa d’Austria.
Quando il destino sembrava avergli chiuso ogni possibilità nel mondo del calcio, visse una seconda giovinezza con successi che non aveva mai conquistato prima. Ma nel 1983, dopo due stagioni, 45 presenze e 6 goal in Bundesliga e una buona integrazione nel tessuto sociale, anche a livello linguistico, decise di non proseguire la sua avventura con il club viennese, nonostante l’allenatore Otto Barić gli propose di restare come allenatore in seconda. Ma la nostalgia per la sua patria e la sua città, Leningrado, presero il sopravvento e vi tornò senza nemmeno un soldo, ma solo con buoni in versione export. All’epoca non serviva a nulla portare valuta estera in Unione Sovietica, e se li avevi te li cambiavano in buoni per fare acquisti ai Berëzka, una catena di negozi di proprietà statale che vendeva al dettaglio prodotti acquistabili con valuta estera. Ma c’è chi avanza l’ipotesi che questa scelta sia stata decretata da Mosca. Per molti quella decisione rimane ancora un mistero.
Tornò quindi in Russia per intraprendere la carriera di allenatore, ma non ebbe molta fortuna. Tra le sue esperienze ci sono quelle in due club minori di Leningrado come il Klimovets, Red Triangle e successivamente al Cherepovets Builder sino al 1986. Nella stagione 1988-1989 collaborò con il suo ex compagno di squadra Vladimir Kazachenko alla guida della Dinamo Leningrado e successivamente intraprese la scelta di diventare un assistente allo Zenit dal 1990 al 1992. La sue esperienza in panchina terminò nel 1994 alla guida dell’Erzi di Petrozavodsk. Di recente si è occupato della scuola di calcio del distretto Krasnogvardeisky ed attualmente, dopo aver vinto l’elezione, è stato nominato come vicepresidente della federazione calcistica di San Pietroburgo e presidente del comitato per le competizioni.
Il calcio post-sovietico non decolla
La sua storia non rappresentò un’eccezione come si pensò all’epoca, ma da lì a poco si poté assistere all’emigrazione di molti calciatori sovietici nei principali tornei europei. Un’espansione che, con il passare degli anni, non si è rivelata di certo favorevole all’esplosione del calcio sovietico a livello internazionale a causa dell’indipendenza ottenuta da diverse repubbliche e dalla creazione di tornei dove non esiste una reale meritocrazia, come la Champions ed Europa League. Le due principali competizioni del vecchio continente hanno negato la possibilità alle federazioni minori di poter competere alla pari con le big spagnole, tedesche, inglesi e italiane, nonostante i successi nei propri tornei e aumentandone sempre di più il divario.
Le uniche eccezioni le hanno rappresentate le vittorie in Europa League di CSKA Mosca, Zenit di San Pietroburgo e Shakhtar Donetsk, tutte formazioni infarcite di giocatori e tecnici stranieri. A livello di Nazionali si ricorda il raggiungimento delle semifinali da parte della Russia a Euro 2008, dopo aver eliminato la favoritissima Olanda e un quarto di finale nei recenti Mondiali casalinghi del 2018.