Aston Villa 1982: dalle Falkland all’Europa

Mentre a migliaia di chilometri di distanza il governo argentino del generale Galtieri tenta un ultimo sussulto d’orgoglio nazionalistico soffocato però dalla intraprendenza della Thatcher, Birmingham conquista la Coppa dei Campioni

di Stefano Ravaglia

L’Impero Britannico si era dissolto già da un bel po’. Nel 1947 la Regina Elisabetta convola a nozze con Filippo, ma nello stesso anno vede l’India, pezzo pregiato della compagnia, salutare tutti e divenire indipendente. I due conflitti mondiali avevano messo tanta pressione alle risorse di qualsivoglia genere del vasto impero iniziatosi a costituire nel sedicesimo secolo, e oggi a testimoniare una grandezza seppur libera e indipendente è la confluenza di 53 stati un tempo sotto il dominio britannico, nel Commonwealth.

Ma nel calcio, tra i Settanta e gli Ottanta, c’è un impero che pareva non finire mai. Nel 1977, dopo che il Bayern aveva infilato tre Coppe dei Campioni consecutive, impresa ripetuta oggi dal Real Madrid a distanza di una quarantina d’anni, l’Europa si tinse di rosso. Solo nella massima competizione continentale, le squadre inglesi dettarono legge: dopo aver vinto la Uefa nel 1973 e nel 1976 (senza dimenticare il Tottenham vittorioso nel 1972) il Liverpool infila due successi di fila battendo Borussia Moenchengladbach e Bruges. Sono i primi trionfi in Coppa dei Campioni per una squadra plasmata e cresciuta da Bill Shankly che ora si è affidata a un altro mago della panchina, il suo vice Bob Paisley.

Il rosso è il colore dominante anche nel 1979 e nel 1980. E il mitico Nottingham Forest di Brian Clough elimina proprio il Liverpool: 0-0 ad Anfield e 2-0 al City Ground, viaggiando, in quel ’79, verso il trionfo contro il Malmoe. Bissato poi l’anno seguente: a Madrid l’Amburgo è battuto 1-0. Fine del ciclo per i Reds? Tutt’altro: a Parigi, nel 1981, basta un gol di Alan Kennedy a otto minuti dal termine per sollevare la terza Coppa dei Campioni in pochi anni. Bene, ora le inglesi cederanno il passo. Il Real Madrid ha iniziato a infilare titoli spagnoli a ripetizione (saranno otto in tredici anni), e anche il Goteborg di un certo Sven Goran Eriksson dà del filo da torcere. La Juventus in Italia è al suo apice e ci sono dunque le premesse perché le britanniche lascino il posto a qualcun altro.

Macché. La stagione che porta ai Mondiali di Spagna presenta ai nastri di partenza una squadra né di Liverpool, né di Manchester, né di Londra o di Nottingham. L’Aston Villa, Birmingham, ha conquistato il titolo inglese mentre il Liverpool se la spassava in Europa, vince l’ultimo dei suoi 7 titoli, il primo dopo settantuno anni. Nessuno o pochissimi anziani, forse, erano in grado di ricordare, al Villa Park, il titolo precedente, quello del 1910. Quattro punti di vantaggio sull’Ipswich Town, altra squadra top che in quella stagione vinse addirittura la Coppa Uefa. Per un breve lasso di tempo, dunque, il palcoscenico è delle outsider, in un calcio che ancora rendeva possibile di frequente questa ipotesi.

La stagione seguente al titolo, non aveva preso una bella piega. In campionato i Villans chiuderanno addirittura undicesimi e l’allenatore del titolo, Ron Saunders, un attaccante che aveva segnato oltre 200 gol in altre piazze poco nobili come Gillingham, Charlton, Portsmouth e Watford, in febbraio rassegna le dimissioni con la squadra che si ritrova addirittura a lottare per non retrocedere. Al suo posto, viene ingaggiato Tony Barton, ex giocatore del Portsmouth che non aveva mai allenato seppur mantenesse un ruolo nell’area tecnica dei Pompey dopo il suo ritiro dal calcio giocato. In quell’Aston Villa ci sono quattro scozzesi sugli scudi: il difensore McNought e Evans, il centrocampista Bremner (solo omonimo di quello del Leeds dei Settanta) e il centrocampista Andy Blair. E anche un nativo proprio di Liverpool: l’attaccante Peter Withe. Ma soprattutto, la bandiera: Gary Shaw, nato a Birmingham, che si lega alla squadra per un decennio diventandone il simbolo.

In quella Coppa dei Campioni la marcia degli inglesi è a ritmo sostenuto: nel primo turno gli islandesi del Valur. Curiosa l’origine del nome: nella loro lingua significa girifalco, un uccello un po’ più grande e dal piumaggio più chiaro del falco che conosciamo. Nessun timore: l’Aston Villa non ne è preda e liquida la pratica già con un 5-0 al Villa Park. concedendosi il 2-0 al ritorno a Reijkyavik. Agli ottavi di finale, la Dinamo Berlino, la squadra sotto il patrocinio di Erik Mielche, capo della Stasi. E infatti, dal 1978 al 1988, la squadra dell’Est tedesco vincerà dieci campionati di fila. In Germania finisce 2-1: il grande protagonista è Morley, con una doppietta.

Prima sblocca la gara già al quinto minuto, e a cinque dalla fine si esibisce in una corsa di 80 metri palla al piede verso la porta avversaria bucando il portiere in uscita per il gol vittoria. La sconfitta al ritorno per 1-0 a Birmingham permetterà comunque alla squadra di Barton di accedere ai quarti. Nel frattempo, avanzano anche i campioni d’Europa in carica: l’altra inglese, il Liverpool, ha eliminato gli israeliani del Palloseura e gli olandesi dell’AZ Alkmaar, ma mentre l’Aston Villa si sbarazza anche della Dinamo Kiev (0-0 in Ucraina e 2-0 in casa, a segno Shaw e McNought), i Reds cadono per mano della CSKA Sofia seppur ai supplementari, facendosi rimontare l’1-0 dell’andata.

Tra la finalissima di Rotterdam e i Villans, c’è l’Anderlecht, che agli ottavi ha fatto fuori anche la Juventus. Per il passaggio del turno basta un diagonale chirurgico del solito Morley dopo mezz’ora della sfida di andata. In Belgio, l’Aston Villa resiste e lo 0-0 li porta all’atto finale. Dove ci sarà da soffrire parecchio ugualmente: il Bayern Monaco, allenato dall’ungherese Csernai e capitanato da Paul Breitner, deciso a riconquistare la Coppa che manca dalla tripletta del 1974, ’75 e ’76, attacca e gli inglesi resistono.

Sino a quando proprio Withe, il nativo di Liverpool, schiaffeggia in rete, con l’ausilio del palo, un assist dalla sinistra a metà secondo tempo. Il risultato non cambierà più, e l’Aston Villa diventa la quinta squadra inglese a vincere la Coppa dei Campioni, nonché la sesta consecutiva a sollevarla, in un vero e proprio dominio che avrà come ultimo sussulto il trionfo ancora del Liverpool nel 1984, prima che sulla terra d’Albione cali la scure dell’Uefa per i noti fatti dell’Heysel. Per rivedere una inglese vincere il massimo trofeo continentale bisognerà aspettare addirittura il 1999.

In Argentina, nel frattempo, è scoppiata una guerra: da aprile a giugno di quel 1982 i sudamericano rivendicano in modo controverso e non veritiero la paternità delle isole Falkland, un arcipelago conteso, in epoca coloniale, da Inghilterra e Spagna e sotto il controllo britannico. Il tentativo di ripristinare l’orgoglio nazionale tramite una azione militare da parte del generale Galtieri, fallisce miseramente: la dittatura argentina, già sotto la contestazione popolare, viene definitivamente sgretolata.

Le forze di Margaret Thatcher, a capo del governo, nel giro di due mesi, si appropriano di nuovo delle terre, e quell’orgoglio popolare verrà risvegliato piuttosto in Inghilterra, reduce da un decennio, gli anni Settanta, di grande depressione. L’Aston Villa, da campione in carica, si farà onore in Europa anche l’anno seguente: la Juventus però, si prenderà la rivincita ai quarti di finale, vincendo 2-1 e 3-1, perdendo però ad Atene la finale con l’Amburgo. Nel 2007, in occasione dei 25 anni dalla vittoria del trofeo, alcuni giocatori di quell’Aston Villa sfilarono al Villa Park con il trofeo tra le mani.

Oggi, la squadra milita in Championship e fatica a rialzarsi dopo aver perso lo spareggio promozione contro il Fulham lo scorso maggio. Tornare a gioire lo si dovrà fare anche in onore quella notte di maggio del 1982, quando la proletaria Aston Villa entrò nell’aristocrazia europea.

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