Quando il pallone anticipò il conflitto armato: Zagabria-Belgrado, la partita “non giocata” che decreterà la fine della Jugoslavia
Il 1990 vide gli ultimi sussulti della Jugoslavia unita. Il paese, un mosaico di culture tenute insieme per 45 anni dalla leadership carismatica del maresciallo Tito, faticava a trovare una nuova identità comune dopo la sua morte nel 1980.
I venti della crisi economica e la disoccupazione dilagante alimentarono il risentimento tra le diverse repubbliche e comunità. In una regione con una storia antica e complessa, i partiti nazionalisti cavalcarono abilmente questo malessere per rivendicare l’indipendenza. Fu in questo contesto turbolento che si giocò la famigerata partita Dinamo Zagabria-Stella Rossa del 13 maggio 1990. Quel giorno lo stadio Maksimir divenne il palcoscenico su cui esplose tutta la rabbia repressa di un popolo pronto a sbranarsi. Il calcio, da sempre collante jugoslavo, si rivelò invece miccia per una polveriera pronta a deflagrare.
Il 1990 vide il disfacimento politico della Jugoslavia
A gennaio, delegati sloveni e croati abbandonarono in segno di protesta l’ultimo congresso dei comunisti jugoslavi: il partito unico che per decenni aveva tenuto unito il Paese si sgretolava irrimediabilmente. Ad aprile la Slovenia, storicamente e culturalmente legata all’Europa occidentale, tenne le prime elezioni libere, prendendo le distanze da Belgrado. A maggio la Croazia seguì l’esempio, con la vittoria dei nazionalisti di Franjo Tudjman. Entrambi i risultati elettorali non vennero riconosciuti dal governo centrale guidato dal serbo Slobodan Milošević, determinato a mantenere il controllo della Jugoslavia. Le spinte indipendentiste di Zagabria e Lubiana si scontravano con l’intransigenza di Belgrado, in un contesto politico sempre più frammentato che faceva presagire il peggio.
Nei primi anni ’90 la Jugoslavia era ormai solo l’ombra del paese unito che era stato. La morte di Tito e il crollo del comunismo avevano fatto emergere tutte le fratture etniche, politiche e culturali sopite per decenni. Sloveni, croati, serbi e bosniaci condividevano ormai solo il ricordo di una nazione che non esisteva più. In questo scenario, il calcio, fenomeno di massa e sport nazionale, divenne lo specchio della disgregazione jugoslava. Tra il 1989 e il 1990 si moltiplicarono gli scontri tra tifoserie, il preludio di ben altri conflitti. Il punto di non ritorno fu raggiunto il 13 maggio 1990 allo stadio Maksimir di Zagabria, quando la sfida tra la Dinamo locale e la Stella Rossa di Belgrado degenerò in una guerriglia urbana che fece da apice ad anni di tensioni represse. Quel giorno, su quel campo, ogni residua parvenza di unità jugoslava si infranse definitivamente.
Dinamo Zagabria-Stella Rossa fu l’inevitabile esplosione di tensioni accumulate nel tempo
Solo una settimana prima, le elezioni in Croazia avevano sancito la vittoria di Franjo Tudjman e del suo partito nazionalista. Un risultato sorprendente per molti, ma non per chi conosceva la parabola di Tudjman: ex partigiano comunista jugoslavo, poi giovane generale dell’esercito, perfino presidente della Stella Rossa Belgrado negli anni ’50. La sua svolta indipendentista e anti-jugoslava negli anni ’70 gli costò però l’espulsione dal partito e il carcere. Il trionfo elettorale del 1990 fu la rivincita di Tudjman, ma gettò benzina sul fuoco delle tensioni etniche. In questo contesto incendiario, la partita di Zagabria rappresentò lo scontro finale tra croati e serbi, tra Dinamo e Stella Rossa, tra due anime della Jugoslavia ormai ai ferri corti.
La sfida, seppur ininfluente ai fini della classifica, era carica di significati che andavano ben oltre il campo. La Stella Rossa, già campione di Jugoslavia, si presentava allo stadio Maksimir di Zagabria in un clima rovente, con i suoi tifosi radicalizzati dalla leadership di un losco criminale. Dall’altra parte, i nazionalisti croati di Tudjman volevano cavalcare eventuali incidenti per attaccare la componente serba delle forze dell’ordine locali. Insomma, una partita di fine stagione che, nel contesto jugoslavo sull’orlo della guerra civile, divenne il pretesto per regolare conti ben più grandi. Le due tifoserie, specchio delle rispettive comunità nazionali, arrivarono allo scontro in un crescendo di tensione che durava da mesi e che quel 13 maggio esplose in tutta la sua violenza.
La tifoseria della Stella Rossa era una risorsa che i leader serbi volevano sfruttare al momento giusto. Per questo l’avevano affidata a Željko Ražnatović, noto come Arkan, un criminale che negli anni ’70 era stato arruolato dalla polizia segreta jugoslava per eliminare gli oppositori politici. Latitante in giro per l’Europa con decine di condanne sulle spalle, anche in Italia dove finì a San Vittore, Arkan aveva trasformato gli ultras della Stella Rossa in una folta milizia, pronta ad entrare in azione al suo comando. Quel 13 maggio 1990 a Zagabria, Arkan cavalcò abilmente le tensioni etniche, trasformando una partita di calcio nel pretesto per scatenare i suoi uomini in quella che sarebbe passata alla storia come la “battaglia di Maksimir”.
La trasferta a Zagabria il 13 maggio 1990 fu l’esordio sul campo della micidiale macchina da guerra costruita negli anni da Arkan. Dallo stadio Marakana di Belgrado egli aveva reclutato e addestrato migliaia di ultras, trasformandoli in una milizia paramilitare. Quel giorno a Maksimir, Arkan diede sfogo alla rabbia dei suoi uomini, in quella che fu una prova generale per ben più efferati crimini di guerra che di lì a poco sarebbero stati compiuti ai danni di croati e bosniaci. La spedizione a Zagabria venne pianificata come un’operazione militare, tra coreografie marziali e canti nazionalisti. In curva quel giorno non c’erano solo tifosi, ma guerrieri pronti a scatenare l’inferno sugli spalti prima ancora che sui campi di battaglia della disgregata Jugoslavia.
Il clima della vigilia era già avvelenato dagli strascichi delle elezioni in Croazia
La mattina della partita, un manipolo di ultras della Stella Rossa aveva infarcito di targhe serbe le auto in sosta nei dintorni del Maksimir, una provocazione per scatenare la rabbia croata. Nel pomeriggio il gruppoo dei tifosi serbi invase Zagabria sui treni, armata fino ai denti e senza una scorta di polizia adeguata, nonostante le intenzioni bellicose fossero palesi. Dall’altra parte, i supporter della Dinamo erano ben consapevoli di ciò che li attendeva. Quando fischiò l’inizio, la tensione era palpabile. Le due tifoserie erano pronte allo scontro, le coreografie lasciarono presto spazio a una guerriglia urbana memorabile. In campo, intanto, i giocatori cercavano goffamente di proseguire la partita, in una surreale parvenza di normalità.
Al Maksimir si affrontavano due squadre dal grande talento. La Dinamo Zagabria schierava soprattutto giovani promesse destinate a carriere stellari, come Zvonimir Boban e Davor Šuker. La Stella Rossa poteva invece contare su una rosa più esperta e completa, che l’anno successivo avrebbe vinto la Coppa dei Campioni. Spiccavano le stelle Dejan Savićević, Dragan Stojković e il serbo-croato Robert Prosinečki, giocatori dalla classe cristallina. Nonostante la posta in palio sportiva fosse relativa, data la vittoria già acquisita del campionato dai serbi, in campo c’era il meglio che il calcio jugoslavo potesse offrire. Peccato che quel talento venisse oscurato da ciò che stava accadendo sugli spalti.
Quel giorno il pallone passò in secondo piano rispetto alla violenza tra ultras
Il calcio d’inizio era previsto per le 18, ma nemmeno il riscaldamento poté essere completato. Dragan Stojković, capitano della Stella Rossa, decise di riportare la squadra negli spogliatoi non appena vide i tifosi serbi prepararsi ad invadere il campo. Nel frattempo in curva infuriava la battaglia: seggiolini divelti, recinzioni abbattute, striscioni incendiati. Poi fu la volta dell’invasione da ambo le parti. Mentre i giocatori restavano al sicuro nel tunnel, sugli spalti andava in scena un drammatico corpo a corpo tra opposte tifoserie, un anticipo in piccolo della guerra che di lì a poco avrebbe insanguinato l’intera regione. Nessuno pensava più al pallone in quel momento: la partita lasciò il posto ad una violenza cieca che nemmeno le forze dell’ordine riuscirono a contenere.
La polizia locale, a maggioranza serba, si accanì soprattutto contro i tifosi della Dinamo. Per questo alcuni giocatori croati, capitanati dal giovane Zvonimir Boban, rimasero coraggiosamente in campo in segno di solidarietà. Nonostante la giovane età, Boban era il capitano più precoce nella storia della Dinamo, oltre che un idolo dei tifosi. La sua popolarità derivava anche dall’impegno nella causa indipendentista croata, che lo aveva reso un simbolo della resistenza contro i serbi. Quel giorno a Maksimir, Boban decise di non restare a guardare l’accanimento della polizia sui suoi tifosi. Scelse di esporsi in prima persona, pagando poi le conseguenze di quel nobile gesto.
Boban vide rosso
Non poté tollerare le manganellate che i poliziotti, per lo più serbi, infliggevano ai tifosi croati a terra. Insultò quindi uno degli agenti, un bosniaco musulmano, che reagì colpendolo con un manganello. A quel punto Boban prese la rincorsa e gli sferrò una ginocchiata in pieno volto, fratturandogli la mascella. Come ebbe a dire in seguito, fu uno dei gesti più importanti della sua vita. Tutto era iniziato con gli ultras della Stella Rossa che vandalizzavano lo stadio, mentre la polizia di Zagabria, complice del regime serbo, lasciava fare e picchiava i tifosi di casa. Boban non ci pensò due volte a schierarsi dalla parte dei suoi, anche a costo di pagarne le conseguenze. Aveva solo 20 anni, ma quel giorno divenne un eroe per il popolo croato.
La partita non si giocò mai
Il terreno di gioco divenne teatro di una vera e propria guerriglia urbana. Scontri, risse, incendi infuriarono a lungo sul manto erboso del Maksimir. I feriti rimasero a terra, mentre la violenza si riversava per le strade della città, proseguendo fino a notte fonda. La Stella Rossa si barricò negli spogliatoi, uscendo solo a mezzanotte passata. Alla fine si contarono 138 feriti tra tifosi e polizia, 132 arresti e centinaia di mezzi distrutti. I tifosi serbi furono rispediti a Belgrado con un treno speciale. La partita, ridotta ad un pretesto, lasciò il posto ad una battaglia campale che anticipò di poco la vera guerra che avrebbe insanguinato la regione. Il calcio quel giorno fu solo sfondo di una violenza cieca che trasformò Zagabria in un campo di battaglia.
Il regime sottovalutò l’accaduto
Inizialmente la stampa sottovalutò i fatti, ma le immagini fecero presto il giro del mondo. La ginocchiata di Boban al poliziotto jugoslavo divenne l’emblema di quella giornata e l’inizio di una storia ben più grande. Dopo la partita Boban dovette nascondersi, cambiando rifugio ogni notte per paura di ritorsioni. Venne poi arrestato e durante il processo l’accusa manipolò le prove video per incastrarlo, prima che emergessero le immagini originali. La federcalcio jugoslava lo squalificò per 9 mesi, estromettendolo dai Mondiali del ’90 in Italia, gli ultimi della Jugoslavia. Una punizione eccessiva per reprimere un gesto divenuto il simbolo della rinascita croata. Quel calcio fece il giro del mondo, ispirando la lotta all’indipendenza. Boban ne pagò il prezzo, ma conquistò un posto nella storia della sua nazione.
Quella partita mai giocata segnò l’inizio della fine
Esattamente un anno dopo, Slovenia e Croazia proclamarono l’indipendenza, dando il là alle guerre jugoslave. La breve ma sanguinosa guerra slovena, e poi il ben più lungo e cruento conflitto in Croazia, con 20 mila morti e un milione di profughi. Le tifoserie di Dinamo e Stella Rossa fornirono uomini alle milizie paramilitari protagoniste delle pulizie etniche ordinate dall’alto. Al Maksimir di Zagabria una lapide ricorda ancora oggi “i tifosi della Dinamo, la cui guerra iniziò il 13 maggio 1990”. In quello stadio, quel giorno, il pallone smise di rimbalzare, lasciando spazio ai primi colpi di una guerra fratricida covata negli animi da troppo tempo.
Il calcio non unì più, ma divise definitivamente un paese già allo sbando. E la Jugoslavia, che nel calcio aveva trovato un raro motivo di orgoglio comune, da lì a poco non esistette più.