Il 1968 si stava facendo sentire fortissimo nella capitale sabauda: dai portici di via Po e dalla vicina Università la contestazione studentesca, nata qualche centinaio di chilometri più a ovest ma in un altro Stato alcuni mesi prima, occupava le preoccupazioni della borghesia torinese. Soprattutto, per chi sapeva leggere la Storia, si capiva che presto, a questi studenti scapestrati che si ribellavano ai loro padri, si sarebbero uniti anche gli operai. E Torino, città-fabbrica per antonomasia, sarebbe stata travolta dalle proteste.
Cosa fosse la tensione, a Mirafiori lo sapevano benissimo. Quando il Padrone di quella fabbrica che costruiva automobili, che era anche il proprietario di una delle due squadre cittadine -quella con la maglia bianconera-, qualche anno prima provò a portare proprio nella sua squadra l’idolo dell’altra metà del cielo torinese, ovvero Gigi Meroni, i suoi operai di fede granata la presero talmente male che, fino a che il padrone non decise di lasciare perdere, le 600 nuove di pacca appena sfornate uscivano dalla Fabbrica bollate, con i copertoni tagliati e in alcuni casi con i parabrezza venati. “Ci prendi l’anima qui dentro, lasciaci godere almeno la domenica”, questo a grandi linee il pensiero degli operai granata. Che vinsero la loro battaglia e poterono piangersi il loro campione appena tre anni più tardi, quando una sera d’autunno e i fari di una macchina se lo portarono via per sempre, privando il calcio di un fenomeno e l’umanità di un principe del pensiero e della modernità.
Ma nel 1968 non faceva più differenza essere granata o bianconeri: si parlava – o almeno s’iniziava – di sfruttatori e di sfruttati; di diritti dei lavoratori e degli studenti; di classi sociali e di provenienza geografica. La forte migrazione interna, che dal profondo Sud portò a Torino centinaia di migliaia di braccia buone per un lavoro sottopagato in fabbrica, stava cambiando velocemente la geografia politica e sociale del capoluogo piemontese. Quando a metà degli anni ’60 i nuovi operai si presentarono fuori dalla Fabbrica con il cappello in una mano e la valigia di cartone nell’altra, il Padrone capì subito che avrebbe avuto il coltello dalla parte del manico e che le condizioni di lavoro le avrebbe dettate lui e lui soltanto.
Questi terùn nella Fabbrica ci erano entrati e si erano accontentati di vivere in appartamenti miseri, senza bagno e da dividere con tutti i componenti della propria famiglia, spesso decisamente numerosa. Il terùn era utile al Padrone perché aveva bisogno di lavorare per portare a casa la pagnotta e mai e poi mai si sarebbe rischiato il posto di lavoro per chiedere un aumento. In più, il terùn, se avesse voluto, alla domenica sarebbe potuto andare al Comunale a vedere la Juventus, la squadra del Padrone, giocare. Il percorso a piedi da casa allo stadio e poi il ritorno sarebbe servito al terùn per convincersi che lavorare rende liberi.
Ma nel 1968 tutto ciò stava cambiando. Da Palazzo Nuovo si partiva per andare davanti alla Fabbrica a coinvolgere nelle proteste gli operai. E questi rispondevano. Anche i terùn. Capirono che potevano permettersi di alzare la testa ora, di non essere più da soli. Alcuni di loro avevano letto Marx, altri Gramsci, altri se li facevano raccontare e ci credevano. Ma la Fabbrica non poteva rischiare di fermarsi e allora il Padrone rispolverò i suoi studi latini e si ricordò che per governare il popolo a questo due cose non devono mai mancare: panem et circenses.
L’uomo di Sicilia
A Varese c’era un giovane attaccante che stava facendo talmente tanto bene che, nello stupore generale, Ferruccio Valcareggi lo portò agli Europei del 1968. Pietro Anastasi, ‘Pietruzzu’, guardò i compagni dalla panchina per tutta la competizione fino a quando, l’8 giugno, il CT decise che era arrivato il suo momento. E l’8 giugno l’Italia giocava la finale dell’Europeo contro la Jugoslavia, non una partita qualunque. Finì in parità, 1-1, e si dovette giocare il replay due giorni dopo.
‘U’turcu’, altro soprannome del giovane attaccante siciliano del Varese, venne confermato in squadra e questa volta, per non sbagliarsi e non uscire più dalla formazione titolare, segnò con una mezza rovesciata dal limite dell’area. Un goal talmente bello che la FIFA l’ha inserito tra i sessanta più belli della storia del calcio europeo. Quella fu la rete del 2-0 che valse il titolo continentale agli azzurri – l’unico, fino ad ora – e la nomina di Cavaliere della Repubblica per tutti i componenti di quella nazionale. Anche di Anastasi, nonostante fosse minorenne.
Dopo quelle due partite, il Padrone di Torino capì che era proprio Anastasi, Pietruzzu, U’turcu, l’uomo giusto per la sua squadra e la sua fabbrica.
E lui si presentò mettendo a segno quindici reti il primo anno, facendo credere a tutti i terùn come lui, che però non giocavano a calcio ma stringevano bulloni nella Fabbrica, che ce la si potesse fare. Nonostante la provenienza geografica, nonostante il Padrone. Anzi, grazie al Padrone. Anastasi stesso raccontava di come venisse fermato per strada dai suoi conterranei che gli chiedevano di segnare e vincere anche per loro. Era il 1969: l’autunno caldo, il mondo in subbuglio, il rovesciamento dello status quo e il ripensamento delle classi sociali. Ma a Torino segnava Anastasi e la Filadelfia esplodeva di gioia, piemontesi e terùn si abbracciavano e ringraziavano Pietruzzu e il Padrone faceva lo stesso, ringraziandolo per aver pacificato la catena di montaggio.
Pietro Anastasi ha segnato tanto -solo in Serie A sono stati 105 i suoi goal- e ha vinto forse meno di quanto meritasse (ma si parla comunque di un Europeo con la nazionale, tre scudetti con la Juventus e una Coppa Italia con l’Inter) ma è stato soprattutto il simbolo per una generazione che aveva dovuto abbandonare forzatamente la propria terra e trasferirsi dove tutti li odiavano e dove loro erano, solo e semplicemente, dei terùn.
Pietro Anastasi si è spento ieri e oggi, anche senza essere terùn, siamo tutti un po’ più soli.
Davide Ravan