Tomàs ‘El Trinche’ Carlovich, il calcio come arte.

Tomàs ‘El Trinche’ Carlovich, il calcio come arte

Riassunto di una carriera mai esistita e definizione di un modello ideale di calciatore.

L’Argentina della prima metà degli anni settanta è servita a far fermentare il potere militare che da lì a poco avrebbe detenuto le chiavi del governo fino al 1983.

Di quel periodo ci ricordiamo un Peròn avviato verso il declino, la moglie Isabelita incapace di guardarsi le spalle e una serie di personaggi sportivi più o meno noti. Il più celebre di tutti è stato senza dubbio Carlos Monzòn, campione mondiale dei pesi medi dal 1970 al 1977. A seguirlo una schiera di calciatori. Tre su tutti: Daniel Passarella, Miguel Àngel Brindisi e Mario Kempes. Fra i più famosi in Patria c’era però un calciatore la cui storia è stata raccontata come un romanzo solo negli ultimi anni: tale Tòmas Carlovich, detto ‘El Trinche’.

La sua leggenda è venuta faticosamente a galla. L’Europa ha conosciuto il mito e l’aneddotica di contorno che consacrano quel presunto giocatore di calcio argentino degli anni settanta come il migliore di sempre. Non abbiamo garanzie se quanto si narri sul suo conto sia vero, non esistono filmati che ne provino il talento. Ciò che sappiamo su Carlovich proviene da testimonianze più o meno romantiche, racconti solo in parte verosimili. La storia de ‘El Trinche’ rimane in sospeso fra la favola per bambini che si avvicinano al pallone e il trattato di estetica dello sport. Carlovich è l’ideal-tipo del calciatore-artista, che la sua storia sia vera o meno.

‘El Trinche’, la leggenda

I dettagli sulla vita del calciatore mai esistito si trovano ormai con facilità. Tomàs Carlovich nasce Rosario, centro nevralgico della provincia di Santa Fe, nel 1949. Settimo figlio di un immigrato croato, incomincia ad accarezzare il pallone sulla strada e impara a trattarlo sotto la guida del maestro ‘Vasco’ Artola. Le sue lodi incominciano a essere tessute fin dai settori giovanili, ma a differenza di alcuni concittadini più celebri (tipo Messi e Di Maria), il calcio professionistico fatica ad accettarlo. Anzi, per correttezza di giudizio, è lui che fatica ad accettare il calcio professionistico. Militerà principalmente nelle squadre di Rosario, allenandosi poco e quasi mai di mattina. Non emergerà mai nella prima serie argentina, ma il suo nome è un fantasma che gravita negli spogliatoi di quasi tutti i club del Paese ancora oggi.

È un uomo enorme. Gioca davanti alla difesa, libero di inventare la partita a suo personale gradimento. È il tipico ‘cinque’ argentino, il volano: detta i tempi e crea calcio in mezzo al campo. Ogni tanto, raramente, recupera qualche pallone che passa dalle sue parti. Non si sogna minimamente di correre, aspetta l’avversario e, se trova la voglia di farlo, gli butta addosso i suoi novanta chili con violenza inspiegabile e non necessaria. I mezzi tecnici di questo granatiere mezzo slavo e mezzo argentino sono eccezionali. Alcuni dicono che non si sia mai visto un giocatore con quei piedi. Altri ridimensionano il concetto sostenendo che le cose che faceva con il pallone non possono essere eseguite da una persona di quelle dimensioni. Lo stesso viene detto del calabrone rispetto al volo d’altro canto. Per intenderci, durante la sua carriera ci saranno presidenti che gli pagheranno un bonus a seconda del numero di tunnel fatti durante i novanta minuti.

La partita che traccia i contorni della leggenda è un’amichevole fra la nazionale argentina e la selezione di Rosario tenutasi nel 1974, prima che la squadra guidata da Vladislao Cap parta per il mondiale di Germania. Al 45esimo il risultato è 3 a 0 per i rosarini e, a quanto si pare, l’albiceleste non vede la palla per tutto il primo tempo. Si narra che negli spogliatoi, il commissario tecnico implorò o comandò all’allenatore della selezione di sostituire ‘El Trinche’. L’obiettivo era fermare l’attacco di labirintite dei suoi giocatori umiliati da tunnel, doppi tunnel e sombreri nel mezzo del campo. Si narra, ma non si sa, perché nulla si sa con certezza quando si tratta di Carlovich.

Dopo quell’incontro, ‘El Trinche’ prosegue la sua militanza semi-professionistica giocando per il Central Cordòba e nel Rosario Central, senza spostarsi mai troppo dalla casa in cui è cresciuto. Tomàs Carlovich è fatto così: deve necessariamente vivere in quella dimensione privata, accanto ai suoi genitori, vicino al suo bar, al suo maestro e ai suoi amici. Pare che quel talento possa esprimersi solo a patto che sia cullato dagli affetti e dalle sicurezze. Non abbandona mai la sua città in cerca di gloria. Non lo fa nemmeno quattro anni più tardi, quando, nel 1978, viene convocato dal CT Menotti per un provino in nazionale. L’esordio con “La Selecciòn” non arriverà mai. Spunta invece un episodio che contribuisce a esaltare il carattere dell’uomo prima ancora che il calciatore. Questa volta si racconta che Carlovich partì effettivamente per Buenos Aires, ma che fermatosi a pescare durante il viaggio non sia più ripartito perché i pesci abboccavano. Non sembra il ragionamento di una persona sana e per questo lo scetticismo è d’obbligo su questa vicenda, ma tutto fa brodo se vogliamo costruire l’idea del calciatore artista.

Tomas ‘El Trinche’ Carlovich.

‘El Trinche’, il calciatore-artista

Per quel che ne possiamo sapere, ‘El Trinche’ rimane un modello ideale del calcio e del calciatore. Due sono gli approcci al pallone più diffusi: da una parte, c’è il paradigma che vuole il calcio come battaglia e il calciatore come combattente; dall’altra, abbiamo il calcio come arte e il calciatore come esteta. Sono due chiavi di lettura della stessa attività che stanno agli antipodi, due poli che sul piano ideale rimangono inconciliabili ma che nella realtà trovano sempre una sintesi. Ecco perché serve una favola solo parzialmente corrispondente alla realtà per dare un volto all’ideal-tipo del calciatore artista. Questo, ad oggi, è il ruolo de ‘El Trinche’ Carlovich: essere un modello ideale, un’utopia, una costruzione teorica inconciliabile con le esigenze pratiche del gioco.

La grazia dei movimenti e del gesto tecnico, le scelte visionarie espresse in mezzo al campo; la violenza gratuita, brutale e immediata nei confronti degli avversari; la tipica indolenza slava verso i doveri, gli allenamenti e il lavoro fisico: tutto ciò che si racconta sul suo conto contribuisce a definire le caratteristiche del calciatore esteta. Tomàs Carlovich è Jackson Pollock proiettato su un prato con una palla. Esiste nell’immaginario, è qualcosa a cui si può scegliere di tendere ma che non sarà mai raggiunto. Nessuno è stato e nessuno sarà mai ‘El Trinche’.

Autore: Antonio Alberti

A proposito di Cristian La Rosa

Cristian La Rosa. Classe ’76, ama il calcio e lo sport in generale. Segue con passione il calcio internazionale e ha collaborato con alcuni web magazine. È il fondatore, ideatore ed editore.

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