Centocinquanta pagine senza fronzoli per raccontare vita e imprese del pilota austriaco a quasi un anno dalla sua scomparsa
di Stefano Ravaglia
Non solo Nurburgring. Ossia il Nordschleife, 22 chilometri di pura follia, dove quasi ci avrebbe rimesso le penne il 1 agosto 1976, e dove molto probabilmente lasciò un Mondiale in più. Ma anche la sua meticolosità e freddezza, la rivalità con Hunt, trasbordata al cinema in un film di Ron Howard, Rush, che non gli è piaciuto troppo (“un’americanata: nemmeno a Lauda era andato troppo a genio”). E uno spaccato, straordinario, magari romantico ma certamente poco sicuro, della Formula Uno degli anni Settanta.
C’è tutto questo nel libro di Pino Casamassima, “Niki Lauda – il campione che ha vinto la paura” , edito da Cairo, uscito nel 2019. Una biografia senza fronzoli dell’uomo-computer figlio di facoltosi, che poteva essere facoltoso con poca fatica, e che invece disobbedì all’ordine genitoriale accollandosi un prestito per correre in Formula Uno, ispirato, anche lui come Gherard Berger più avanti, dal più grande pilota austriaco di sempre, Jochen Rindt. Che morì a Monza nel 1970.
Semplice, diretto ma allo stesso tempo con una marea sconfinata di dettagli, chicche e retroscena, il libro di Casamassima, giornalista e scrittore che i motori li ha visti da molto vicino seguendo tanti Gran Premi negli anni migliori della Formula Uno (e del giornalismo…), somiglia molto al suo protagonista. Niki Lauda è stato uno dei più grandi: tre Mondiali (1975, 1977 e ’84), 171 GP disputati con 25 vittorie.
Molto diverso da quel folle di Gilles Villeneuve, che vinse solo 6 gare ma piaceva al “Drake” per la sua guida spericolata. A Niki interessava la metodica, la tattica, il campionato Mondiale in senso esteso, lavorare da formica e non facendo la cicala. Raccoglieva, rifiniva, calcolava, metteva punti in cascina per un traguardo più grande.
Enzo Ferrari, già, colui che aveva pensato a una seconda guida diversa da mettere al fianco di Clay Regazzoni, mentre fu proprio il ticinese gli fece il nome di Lauda, anno 1973. Gli anni della 312 T, macchina superlativa messa in piedi dal decano degli ingegneri, Mauro Forghieri, e che ha rischiato di essere la sua tomba. E l’abilità dell’autore, che dedica un capitolo a quella degenza ospedaliera dell’agosto ’76 mentre il rivale dei rivali, Hunt, vinceva le gare senza di lui, è quella di far subentrare la moglie di Lauda, Marlene, dandole un ruolo definito e fondamentale, poiché non sarebbe mai uscita da quel nosocomio senza il suo Niki, ustionato, offeso, ma pur vivo.
Il rientro a Monza 42 giorni dopo con le bende che sanguinano è storia nota. Quarto posto, festeggiato come una divinità, nonostante non avesse raggiunto il podio per un nonnulla. Ma dopo averla scampata da quell’inferno di fuoco e fiamme, era già un trionfo. Due i Mondiali col Cavallino, non senza dissapori con il “commendatore”, che non aveva mai trovato nessuno davanti a dirgli dei “no”. Il rapporto che si sfilaccia, la separazione, i magri risultati con la Brabham e l’addio alle corse quasi all’improvviso, nel 1979.
Un addio momentaneo, perché poi se lo prende la McLaren e al primo anno in Formula Uno di un giovane Ayrton Senna, lui vince il suo ultimo titolo Mondiale per… mezzo punto, dopo che a Montecarlo la gara era stata interrotta e i piloti si videro dimezzare i loro punteggi.
“Il mondo della Formula Uno è un mondo di feroce competizione. Non c’è spazio per le amicizie vere”, diceva Niki, scomparso il 20 maggio del 2019, che come ultima opera d’arte portò Hamilton alla Mercedes, di cui era supervisore. Lui, che della feroce competizione e della ricerca della perfezione, aveva fatto la sua vita. Come tutti quelli che aspirano ad essere grandissimi.