Il silenzio di Brian

Brian Epstein e i Beatles: il silenzio che ha trasformato una band in una leggenda, unendo musica e identità in un mondo diviso.

Brian Epstein guardava fuori dalla finestra del suo ufficio, mentre la pioggia scivolava lenta lungo il vetro, dipingendo strisce di malinconia nel cielo grigio di Londra. Era il 1963, l’anno in cui tutto cambiò. I Beatles, un gruppo di ragazzi di Liverpool che aveva intrapreso un viaggio musicale rivoluzionario, stavano diventando il fenomeno più travolgente che il mondo avesse mai conosciuto. La loro musica risuonava ovunque, penetrando cuori e menti, eppure Epstein, il loro manager, sapeva che il successo portava con sé non solo gloria, ma anche pericoli nascosti.

Liverpool, la città che aveva dato i natali ai Beatles, era un luogo di divisioni profonde, un campo di battaglia dove la rivalità tra le squadre di calcio si trasformava in una questione di identità. In una Liverpool divisa tra rossi e blu, esporsi era troppo rischioso. Scegliere una squadra significava schierarsi, alienando inevitabilmente una fetta di pubblico. Epstein sapeva che ogni passo falso avrebbe potuto compromettere l’immagine universale della band.

L’ufficio era immerso in un silenzio inquietante, rotto solo dal ticchettio costante dell’orologio sulla parete. Epstein si accese una sigaretta, il fumo si alzò a spirale, confondendosi con i suoi pensieri. Da tempo avvertiva una crescente tensione, una minaccia silenziosa che aleggiava attorno ai suoi ragazzi. Non era qualcosa di evidente, come un problema con la stampa o un conflitto con i produttori. No, era qualcosa di molto più subdolo, qualcosa che si nascondeva tra le pieghe dell’identità stessa di una nazione: il calcio.

Impossibile non mischiare musica e calcio conoscendo il dualismo che caratterizza da sempre la loro città d’origine: Liverpool oppure Everton? Se sei un appassionato di calcio bisogna scegliere, non ci sono scuse che tengano. In quel periodo, le due squadre della città vivevano costantemente ai piani alti della classifica. Nel decennio 1960-1970, dalla fondazione allo scioglimento del gruppo, le due formazioni vinsero due titoli nazionali a testa, una Coppa d’Inghilterra per una e due Charity Shield l’Everton, mentre il Liverpool ne conquistò tre di fila (1964, 1965 e 1966).

Essere di Liverpool, Reds oppure Toffees, in quegli anni voleva dire esultare oppure farsi prendere in giro dagli odiati rivali. Era un periodo d’oro per il calcio inglese che in quel decennio vedeva molti successi nelle coppe europee, ma il Paese raggiunse l’apice della gioia nel corso del mondiale casalingo del 1966 con il primo (e unico) trionfo della nazionale dei Tre Leoni. Gli stessi Beatles resero omaggio a quel successo inserendo nella versione del loro pezzo “Glass Onion”, contenuto in Anthology 3, un campionamento dell’esultanza (“It’s a goal, it’s a goal”) del telecronista della BBC, Kenneth Wolstenholme, dopo il gol che chiuse la finale contro la Germania Ovest, sconfitta per 4-2.

Quel pomeriggio, mentre i Beatles provavano una nuova canzone in studio, Epstein entrò silenziosamente. Si appoggiò al muro, osservando John Lennon scherzare con Paul McCartney su una partita vista il giorno prima. Le risate riempivano la stanza, ma quando Lennon menzionò il nome di una squadra, Epstein si irrigidì. Con il cuore appesantito, sapeva che quella leggerezza avrebbe potuto trasformarsi in un boomerang.

Consapevole dei problemi che sarebbero potuti nascere schierandosi, il loro manager, Brian Epstein, aveva suggerito ai quattro di evitare di esporsi e di non prendere mai parte ad avvenimenti sportivi palesemente schierati a favore di una determinata fazione; insomma di cercare in tutti i modi di non far arrabbiare né i tifosi di una squadra né quelli dell’altra, per non perdere così una grossa fetta di pubblico.

Dopo la sessione, Epstein invitò i ragazzi nel suo ufficio. Si sedettero di fronte a lui, incuriositi dal tono solenne che aveva assunto. “Ragazzi,” iniziò Epstein, la sua voce tradiva una tensione nascosta, “devo parlarvi di qualcosa di importante.” Fece una pausa, guardando uno ad uno i volti dei suoi ragazzi, cercando le parole giuste. “Il calcio… il calcio in Inghilterra è molto più di un gioco. È un simbolo di appartenenza, di identità. E voi… voi siete diventati simboli di qualcosa di più grande, qualcosa che va oltre le divisioni.”

John, il più irriverente, sollevò un sopracciglio. “Di che stai parlando, Brian? È solo calcio.”

Epstein espirò lentamente il fumo della sigaretta, lasciando che si dissolvesse nel silenzio della stanza. “Forse per voi è solo calcio, ma per milioni di persone là fuori è tutto. Se prendete posizione, se dichiarate il vostro amore per una squadra, alienerete metà dei vostri fan. Voglio che i Beatles siano amati da tutti, indipendentemente dalla squadra che tifano. La neutralità vi proteggerà, vi permetterà di essere voi stessi senza compromettere ciò che avete costruito.”

Paul si sporse in avanti, il suo sguardo concentrato. “Vuoi dire che non dovremmo mai parlare di calcio? Neanche scherzare?”

Epstein annuì, la gravità della situazione si rifletteva nei suoi occhi. “Esatto. Il prezzo della fama è spesso il silenzio su certi aspetti della propria vita. Non è falsità, è protezione. Protezione per ciò che avete creato, per il legame che avete con i vostri fan.”

George, sempre il più riflessivo, si accigliò, il dubbio era evidente sul suo volto. “Ma non ci fa sembrare… falsi? Nascondere chi siamo davvero?”

Epstein lo fissò intensamente. “Non si tratta di falsità, George. Si tratta di sopravvivenza. La vostra musica parla per voi. Non lasciate che una cosa così triviale come il calcio spezzi questo legame unico che avete creato.”

I punti interrogativi su gran parte delle storie raccontate sui Beatles, a distanza di oltre mezzo secolo dallo scioglimento della band, sono ancora molti. Storie incredibili che narrano di sosia, messaggi subliminali se si ascoltano le loro canzoni al contrario e tanto altro. Un fenomeno quasi circondato da un’aura magica come quello dei Fab Four non poteva che generare leggende anche sulla (presunta) fede calcistica dei quattro musicisti.

Il silenzio calò nella stanza, mentre i Beatles riflettevano sulle parole del loro manager. Epstein li osservava, consapevole del peso che stava imponendo su di loro, ma anche convinto che fosse l’unica via per mantenere intatta la magia. Quando i ragazzi si alzarono per andarsene, Epstein rimase solo, il crepitio della sigaretta nel posacenere era l’unico suono nella stanza. Guardò fuori dalla finestra, la pioggia continuava a battere incessante, mentre si chiedeva quante altre verità avrebbero dovuto sacrificare per mantenere vivo il sogno che avevano creato insieme.

John, Paul, Ringo e George, soprattutto nei primi anni della loro carriera, non presero mai una posizione chiara e netta ma, in puro stile Beatles, sembrarono voler scherzare con il pubblico disseminando indizi e richiami all’interno dei loro lavori. Nello spezzone del film Yellow Submarine quando passa in sottofondo il pezzo Eleanor Rigby mostrano, quasi come a non voler far torto a nessuno, due squadre di calcio, una vestita di blu e una di rosso.

Mentre quello del film è un approccio neutrale, un evitare di prendere posizione, le cose sembrano diverse se ci si sposta in ambito musicale. La sciarpa biancorossa che avvolge i quattro nel video di Help!, la citazione di Matt Busby, ex giocatore dei Reds, nel testo di Dig It (pezzo contenuto nell’album Let It Be) e l’immagine dell’ex attaccante del Liverpool Albert Stubbins, inserita tra i tanti personaggi presenti sulla cover di Sgt. Pepper’s and Lonely Hearts Club Band: tutti gli indizi sembrano portare ad Anfield.

In mezzo a tanti indizi sembra esserci anche una vera prova, sempre di colore rosso. Si tratta di un telegramma indirizzato dai quattro musicisti ai giocatori del Liverpool alla vigilia della finale di Coppa d’Inghilterra del 1965, poi vinta per 2-1, contro il Leeds. Il messaggio, ritrovato anni dopo la sua scomparsa tra gli effetti personali di Bill Shankly, allenatore dei Reds dal 1959 al 1974, recita: “Buona fortuna ragazzi, vi guardiamo in televisione”. Quel telegramma, oggi esposto al Shankly Hotel di Liverpool, sembrerebbe chiudere il cerchio, ma in realtà non tutto è come sembra.

Quello tra i Beatles e il calcio è un legame che affonda le proprie radici nell’infanzia, in questo caso di John Lennon. La copertina di Walls & Bridges di John Lennon riprende un suo disegno all’età di 11 anni: da buon inglese, John era cresciuto sognando (e guardando) il calcio.

Nonostante questi segnali, sarà il solo John Lennon, molti anni dopo, ad uscire allo scoperto dichiarando il suo amore per i Reds e raccontando il suo sogno, sin dall’infanzia, di giocare per il Liverpool. A confermare il tutto anche Peter Best, primo batterista del gruppo poi sostituito da Ringo Starr, che ha più volte raccontato della fede Reds di Lennon, fede opposta alla sua, grande tifoso dell’Everton. Ma Lennon era in generale un grandissimo appassionato di calcio: simbolica la copertina del suo album Walls & Bridges, un disegno, fatto da bambino, di un’azione della finale di Coppa d’Inghilterra tra Arsenal e Newcastle.

Paul McCartney invece non si è mai sbilanciato, o meglio sembrava averlo fatto ma più volte è ritornato sui propri passi. In principio, Sir Paul ha confermato di essere un tifoso dei Toffees come tutta la sua famiglia: famosa l’immagine che lo ritrae allo stadio di Wembley, in compagnia di suo cugino, in occasione della finale di FA Cup del 1968 tra Everton e West Bromwich Albion.

Anni dopo però lo stesso Paul, forse anche per non inimicarsi una parte dei suoi concittadini, ha rivelato di aver iniziato a simpatizzare per entrambe le squadre della sua città una volta diventato amico, dopo un suo concerto, di Kenny Dalglish, ex attaccante Reds, e di aver tifato Liverpool in occasione della finale di Champions League contro il Milan nel 2005.

Diverso il discorso per quanto riguarda gli altri due Beatles, George Harrison e Ringo Starr. I due non hanno mai parlato espressamente di football, ma questo non li ha sottratti alla dura legge del pettegolezzo – vista anche l’acclarata e comune passione calcistica. Se il primo, più volte accostato all’Everton, ha sempre sviato l’argomento del dualismo Reds/Toffees affermando di preferire le auto da corsa al calcio e dichiarando scherzosamente: “Non c’è una terza squadra? Bene, tifo per quella”, sul tifo del batterista circolano invece da anni due voci, nessuna delle quali confermata o smentita dal diretto interessato.

C’è chi lo vuole tifoso dell’Arsenal, influenzato dal padre di origini londinesi, e chi invece lo ha sempre etichettato come tifoso del Liverpool, alimentando la leggenda di una band divisa a metà. Quella di un derby calcistico nelle dinamiche del gruppo potrebbe essere solo un’altra storia sui quattro di Liverpool oppure la realtà, ma ci interessa fino a un certo punto. Quello che è certo è che le leggende sui Beatles, anche nel calcio, non moriranno mai.

Quando i ragazzi si alzarono per andarsene, Epstein rimase solo, il crepitio della sigaretta nel posacenere era l’unico suono nella stanza. Guardò fuori dalla finestra, la pioggia continuava a battere incessante, mentre si chiedeva quante altre verità avrebbero dovuto sacrificare per mantenere vivo il sogno che avevano creato insieme.

Quel pensiero lo tormentava, ma alla fine lo scacciò. Sapeva che i Beatles erano molto più di una semplice band. Erano un fenomeno culturale, una forza capace di unire il mondo intero. E se il prezzo da pagare era il silenzio su una questione così divisiva, allora era un prezzo che valeva la pena pagare.

Con un ultimo sguardo alla pioggia, Epstein chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. Il futuro dei Beatles era assicurato, almeno per ora. E in quel silenzio, Epstein trovò una strana pace, sapendo che aveva fatto tutto il possibile per proteggere i suoi ragazzi, anche da loro stessi. Quello che non poteva prevedere era che quel silenzio avrebbe creato una leggenda, un mito che avrebbe resistito al tempo, trasformando la storia dei Beatles in qualcosa di ancora più grande.

E forse, solo forse, quel silenzio sarebbe stato ricordato non come una scelta di prudenza, ma come l’atto di saggezza che aveva permesso a una band di diventare eterna.

(I dialoghi tra Brian Epstein e i Beatles presenti in questa storia sono frutto della fantasia dell’autore. Pur ispirandosi a eventi storici e reali, questi scambi immaginari sono stati creati per arricchire la narrazione e per offrire un racconto che mescola fatti e finzione in modo evocativo.)

A proposito di Cristian La Rosa

Cristian La Rosa. Classe ’76, ama il calcio e lo sport in generale. Segue con passione il calcio internazionale e ha collaborato con alcuni web magazine. È il fondatore, ideatore ed editore.

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