La storia dimenticata: il pioniere africano del calcio tedesco

La leggendaria “Perla Nera” che ruppe ogni barriera razziale: Guy Kokou Acolatse, il pioniere africano che conquistò il calcio tedesco con la sua magia

Quando Otto Westphal ricevette la sorprendente offerta per allenare la nazionale del Togo, il tecnico tedesco non ci pensò due volte. Lasciarsi alle spalle la Germania Est e volare nel cuore dell’Africa subsahariana rappresentava un’opportunità unica, per quanto rischiosa.

Così, con la valigia in mano e tanti sogni in testa, Westphal salutò la sua BSG Chemie Lipsia e si imbarcò verso nuovi orizzonti. Il ricco clima atlantico del piccolo Paese da poco indipendente dalla Francia avrebbe giovato ai suoi polmoni malandati, ma la vera sfida era rilanciare il calcio togolese sfruttando al meglio il talento dei giocatori locali.

L’IMPRONTA TEDESCA NEL TOGO

La scelta del Togo di affidare la panchina della propria nazionale a un tecnico tedesco affondava le radici nella storia coloniale del Paese. Per oltre vent’anni, tra il 1894 e il 1914, il Togoland fu infatti un protettorato e poi una colonia dell’Impero tedesco. Solo con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale il dominio teutonico venne spezzato dall’occupazione di francesi e britannici. Tuttavia, nonostante il traumatico passaggio di potere, nell’immaginario del popolo togolese la Germania continuava a rappresentare un modello e un punto di riferimento. La scelta di Westphal come CT celebrava idealmente quel legame storico, puntando a trasferire nel calcio locale la proverbiale disciplina e organizzazione teutonica. Una mossa audace, ma coerente con l’identità meticcia di una nazione africana profondamente segnata dall’esperienza coloniale.

Appena sbarcato nella calda e affollata Lomé, Westphal si rese conto di avere tra le mani una miniera grezza da modellare: i giocatori togolesi erano atleti possenti, ricchi di talento naturale, ma totalmente digiuni di tattica e organizzazione di gioco. Per loro il calcio era pura espressione individuale, frutto di anni passati a prendere a calci arance e palloni improvvisati per le polverose strade dell’Africa Occidentale. In mezzo a quel gruppo di diamanti grezzi spiccava la vivace classe di un giovanissimo attaccante, Guy Kokou Acolatse. Westphal comprese subito che, se plasmato nel modo giusto, quel ragazzo avrebbe potuto diventare una stella del calcio africano. Il tecnico tedesco aveva una missione: trasmettere ai quei talenti in erba la disciplina tattica del calcio europeo, fondendola con la loro innata creatività.

L’INTUIZIONE DI WESTPHAL

L’esperienza di Westphal sulla panchina del Togo fu breve, ma intensa. Tornato in patria nel 1962, l’allenatore approdò all’FC Sankt Pauli, prendendo idealmente il testimone dalla leggenda Heinz Hempel. La sfida era ardua, ma il presidente Wilhelm Koch riponeva totale fiducia in lui. Così, memore del talento di quel giovane attaccante togolese, Westphal non esitò a comporre il numero di Acolatse per convincerlo a raggiungerlo ad Amburgo. “Il mio club cerca un numero dieci e voglio che quel numero dieci sia tu”, gli disse con schiettezza teutonica. In un calcio privo di procuratori, bastò quella telefonata per gettare le basi di un’operazione storica. Nell’estate del 1963, Kokou Guy Acolatse divenne infatti il primo calciatore africano professionista in Germania, inaugurando una nuova era per il Sankt Pauli e per il calcio tedesco. Westphal aveva scommesso sul talento di quel diamante grezzo forgiato tra le strade polverose del Togo. E la scommessa stava per dare i suoi frutti.

Nonostante la giovane età, 17 anni appena, Acolatse era già una stella in patria, guadagnandosi il soprannome di “mago” per le sue giocate funamboliche. Club francesi e belgi avevano fiutato il talento del giovane togolese, corteggiandolo con offerte allettanti. Ma Acolatse, precocissimo internazionale del suo Paese, aspettava un segnale da colui che considerava una figura paterna. Quando Westphal lo chiamò per offrirgli un ingaggio con il Sankt Pauli, il dado fu tratto malgrado la lusinga di poter giocare in campionati ben più blasonati, Acolatse scelse il club di Amburgo come trampolino per il grande salto in Europa. La fiducia di Westphal fu decisiva: il primo calciatore nero della Bundesliga era pronto a stupire il calcio tedesco con la sua classe cristallina.

L’IMPATTO DI ACOLATSE TRA RAZZISMO E IDOLATRIA

Acolatse arrivò ad Amburgo come un pesce fuor d’acqua, spaesato in quella Germania che non conosceva se non per sentito dire. Lui, abituato ai ritmi lenti dell’Africa, si ritrovò catapultato in un mondo frenetico, con migliaia di sconosciuti ad acclamarlo come un eroe. “Non sapevo nulla della Germania. Ai nostri tempi non esisteva la televisione. Quando sono arrivato a Millerntorplatz c’era moltissima gente”, raccontò in seguito, descrivendo lo stupore nel vedere i tifosi accalcati per dargli il benvenuto. Chiese perfino a Westphal perché ci fossero tutte quelle persone, se non era prevista alcuna partita. “Sono qui per te”, gli rispose il mister.

Travolto da quell’ondata di entusiasmo, si rifugiò nel taxi che lo aveva portato lì, desiderando solo fuggire da quella marea umana sconosciuta. Ci vollero le rassicurazioni di Westphal e del presidente Koch per convincerlo a restare. Alcuni tifosi gli si avvicinarono timidamente, grattandogli la pelle scura come per sincerarsi che quel colore non svanisse al tocco. Non avevano mai visto un uomo di colore prima di allora. L’arrivo di Acolatse era un evento epocale, il “colpo pubblicitario” con cui la Regionalliga Nord voleva fare invidia alla Bundesliga, come scrisse Die Zeit. Il calcio tedesco stava per cambiare per sempre.

L’impatto di Acolatse con la Germania fu tutt’altro che semplice. Il clima piovoso mal si conciliava con le sue origini africane: “Qui piove sempre”, si lamentava in privato. In più, il razzismo era una dura realtà: in bar e ristoranti gli veniva impedito di sedersi, mentre dagli spalti gli ululavano “scimmietta”. Nonostante ciò, Acolatse affrontò pregiudizi e prese in giro con stoico buonumore. Alla fine, tutti volevano farsi una foto con quel simpatico ragazzone venuto dall’Africa e la sua popolarità crebbe a dismisura: aziende come Avon lo ingaggiarono come testimonial pubblicitario.

Partecipò perfino come comparsa in un film con la star danese Gitte Haenning, anni dopo rappresentante della Germania all’Eurovision Song Contest del 1973. Quell’esotico talento del pallone stava conquistando anche il mondo dello spettacolo, contribuendo a cambiare l’immaginario tedesco sull’integrazione razziale.

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IL GOL STORICO CONTRO IL BAYERN

In campo Acolatse dimostrò subito il suo valore, giocando due stagioni con la maglia del Sankt Pauli dal 1963 al 1965 e mettendo a segno 7 gol in 43 partite. Schierato alle spalle delle punte Haecks e Osterhoff, era libero di inventare e sorprendere le difese avversarie con il suo estro. Già al debutto in campionato contro l’Altona 93, ipnotizzò il pubblico del Millerntor con la raffinatezza dei suoi dribbling e la precisione dei passaggi. Gli spettatori rimasero estasiati da quel talento esotico. In una delle prime partite, a Büdelsdorf, alcuni tifosi lo canzonarono gridandogli: “Corri, Pelè!”. Pronta arrivò la risposta di Acolatse: un gol, il suo primo con la nuova maglia. Dopo quel debutto folgorante, gli elogi si sprecarono: sofisticato, eccellente tocco di palla, dedizione esemplare. Il “mago” africano aveva conquistato anche il pubblico amburghese.

L’esperienza di Acolatse in Germania lasciò un segno indelebile. Con la maglia del Sankt Pauli disputò nel 1964 lo spareggio promozione in Bundesliga contro il Bayern Monaco. Sconfitta per 1-6, ma il gol della bandiera lo segnò proprio il talento togolese, beffando il portiere Sepp Maier. Tre minuti prima, un giovane esordiente di nome Franz Beckenbauer aveva firmato la sua prima rete in carriera. Nonostante i pochi gol, Acolatse non era una semplice “attrazione esotica”: il suo tocco di palla raffinato era fondamentale negli schemi di Westphal. Dopo la sua partenza, con l’arrivo di Otto Coors cambiò il modo di giocare del Sankt Pauli, che abbandonò il calcio di tocco per puntare sulla forza.

Ancora peggio andò con il successivo tecnico Kurt Krause, che raramente faceva affidamento su di lui. Ma ormai Acolatse aveva già scritto la storia: il suo gol a Maier sarebbe rimasto negli annali, simbolo di una rivoluzione culturale appena iniziata.

EUCALYPTUS

La stampa faticava a rendere giustizia al talento di Acolatse, storpiandone regolarmente il cognome in modi fantasiosi. Lui sembrava non curarsene, così come non gli pesavano i soprannomi scherzosi dei tifosi, che lo chiamavano bonariamente “Eukalyptus”. In campo il giovane togolese non si faceva intimorire dai possenti avversari tedeschi. “Se mi toccate vi mordo, il negro morde e le sue punture sono mortali”, li ammoniva con insolita minaccia. “Erano più grossi di me ma avevano paura”, ricorda divertito.

Dopo l’iniziale clamore, l’interesse per la “nuova stella del Sankt Pauli” scemò presto. Il suo stipendio di 400 marchi al mese gli consentiva una vita decorosa in un appartamento della città. Acquistò prima una utilitaria Fiat, poi la sostituì con una più confortevole Volkswagen 1600. Nonostante il razzismo negli stadi e l’oblio della stampa, Acolatse si era ormai guadagnato il rispetto sul campo.

La “Perla Nera”, come veniva soprannominato, era molto amato dai compagni, che spesso lo ospitavano per una visita. Anche le donne amburghesi lo corteggiavano: sposò e divorziò tre volte da una ragazza del posto, dalla quale ebbe un figlio. Cercò di conciliare gli allenamenti con un lavoro da tecnico televisivo, ma alla fine né la squadra né l’azienda riuscirono ad accordarsi sugli orari. Dovette dedicarsi solo al pallone e, di tanto in tanto, collaborare con un giornale locale scrivendo qualche articolo nel pomeriggio.

DA AMBURGO A PARIGI

L’esperienza di Acolatse in Germania volgeva ormai al termine. L’arrivo di Krause al Sankt Pauli aveva chiuso le porte della prima squadra al talento togolese, così, in cerca di nuove opportunità, nel 1966 passò all’HSV Barmbek-Uhlenhorst e vi giocò fino al 1968, per poi tornare qualche anno dopo tra i dilettanti del Sankt Pauli, prima di appendere definitivamente gli scarpini al chiodo. Ma la sua storia calcistica non era ancora finita: dopo aver conseguito il patentino da allenatore, nel 1981 si trasferì a Parigi, chiamato dal PSG per guidare le giovanili del Saint-Denis. Nella capitale francese ricostruì la propria vita: si risposò ed ebbe un altro figlio.

Acolatse rimase per sempre una pietra miliare: il primo calciatore africano nel calcio tedesco, colui che ruppe barriere razziali e culturali con il suo talento e il suo carisma che portò un sorriso nell’Amburgo cupa del dopoguerra, scaldando i cuori di una generazione che non aveva mai visto un uomo di colore. Una figura indimenticabile, dentro e fuori dal campo.

A proposito di Cristian La Rosa

Cristian La Rosa. Classe ’76, ama il calcio e lo sport in generale. Segue con passione il calcio internazionale e ha collaborato con alcuni web magazine. È il fondatore, ideatore ed editore.

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