Michels, Sacchi, la caviglia, il pubblico milanista colmo di entusiasmo, i problemi finanziari, le insicurezze: vita e miracoli di uno dei più forti d’ogni epoca in 267 pagine
di Stefano Ravaglia
Riga dopo riga, appare delinearsi chiaramente quel titolo. “Fragile”, col faccione di Marco Van Basten in copertina, edito da Mondadori, è la biografia della vita e della carriera dell’asso olandese. Appese le scarpe al chiodo nel 1995, dopo una inattività di due anni, Marco ha dovuto rinunciare a qualche ulteriore anno fortunato da calciatore per via dei suoi problemi alle caviglie di lunga data.
In “Fragile”, titolo secco, diretto e senza fronzoli, Van Basten racconta la sua vita e la sua carriera in una terra di grande classe calcistica come l’Olanda e l’approdo in Italia con un entusiasmo sconfinante che investì lui e Gullit, i pezzi pregiati della campagna acquisti rossonera del 1987. Come ogni biografia, chiunque aspetta i retroscena, e anche se il libro non appare scritto con letteratura granché elevata, questi di certo non mancano.
A partire dal suo amichetto di pallone, che finì ucciso quando andarono a giocare in un lago ghiacciato a circa 6 anni. O dell’oracolo Crujff, simbolo del paese, che è suo allenatore nell’Ajax, nonché l’incontro con Liesbeth, moglie e madre dei suoi figli, davanti alla quale la prima sera, insieme a degli amici, si ritrovò completamente ubriaco a tal punto da non ricordare il giorno dopo la serata trascorsa.
Un’ascesa celere, agevolata da un talento straordinario e quell’opera d’arte, la rovesciata, imparata nell’acqua basse di un laghetto in un complesso ricreativo in Olanda. C’è un capitolo dedicato interamente alla prodezza contro il Den Bosch nel 1987: un capolavoro.
E poi il Milan. E il suo pubblico, dirompente. Esilarante quando racconta l’assedio per gli autografi: “Un tifoso venne a chiedermi di firmare per esteso. Ma io non sapevo che volesse dire nome e cognome. Così firmai ‘Per Esteso, con affetto, Marco Van Basten”. Eccolo centrato il cigno di Utrecht: l’ingenuità e il candore fatta a persona. Nessuna cura per l’aspetto esteriore quando si andava all’allenamento, mentre gli italiani del club arrivavano vestiti di tutto punto. “Io e Gullit ci presentavamo in calzettoni e con la roba in una borsa normalissima. Loro avevano le cose in un elegante beauty case ed erano molto eleganti. A me e Ruud ci avranno scambiati per due contadini olandesi”. E quel modo così minuzioso di sentirli parlare di cibo, cosa inusuale in Olanda, a tal punto da discutere sul tipo di taglio della carne. Un mondo nuovo, per Marco.
Che parlò a suon di gol e raffiche di emozioni donate ai supporter rossoneri che con lui vissero gli anni migliori. E poi sì, Arrigo Sacchi. Parole che pesano: un uomo che non andava diretto nei rapporti, e che in fondo non aveva inventato nulla perché la squadra era prettamente difensiva. E quel 4-4-2 scomodo: “All’Ajax, con il 4-3-3, avevo sempre qualcuno ai lati che mi sfornava palloni”. Ma quella consapevolezza di capirlo quando fu lui ad allenare l’Olanda e a sentirsi un peso di responsabilità non indifferente. Anche Sacchi stesso lo confermò: “Rividi Van Basten quando allenava l’Olanda, mi disse che ora capiva meglio cosa volesse dire allenare, e capì tutti i problemi che gli avevo creato. Gli dissi: me ne hai risolti anche parecchi”.
La caviglia, dunque. Dopo gli anni di Capello, in cui il suo estro si sentì più libero di esprimersi, nel 1992 decide, ammettendo che lo fece contro il volere della società, di operarsi dal professor René Marti a Saint-Morritz. L’origine di quel suo male si può addirittura trovare in una riga del libro: “In una partita con l’Ajax saltai e atterrai sulla gamba dell’avversario. Sentii uno scompenso al menisco ma ancor di più alla caviglia”. Chissà se lì iniziarono davvero tutti i problemi. Esce la sofferenza vera e propria di Van Basten, fermo sul divano per mesi, che va in bagno a gattoni e che naturalmente non può calciare più un pallone.
I tempi di recupero si allungano, il Milan si lamenta con quel luminare che avrebbe dovuto risolvergli tutti i problemi, fin quando non si cambia specialista, senza risultati. E quell’ultima tortura, nel 1994: il sistema di “Ilizarov”, una trappola di ferro da annodarsi alla caviglia utilizzata per chi è affetto da nanismo, che avrebbe dovuto distendere l’osso tramite dei pioli girati costantemente giorno dopo giorno. La situazione addirittura peggiora. “Basta, domani chiamo Berlusconi. Gli dico che è finita”, è il testamento sportivo di Marco che saluta tutti in una conferenza stampa dell’agosto 1995 nella sala coppe di via Turati, molte delle quali vinte grazie a lui.
E l’Olanda. Vita intensa: campione d’Europa nel 1988 con quell’eurogol all’Urss figlio della follia, perché il nostro non pensava mai che finisse in una traiettoria così rara. E anche Michels, a proposito di allenatori, forse l’innovatore vero del calcio d’attacco, definito da Marco un “buon selezionatore, ma tatticamente nulla di che”. Insomma, solo allenatori grandi e indigesti per il fuoriclasse. Da allenatore, la “battaglia di Norimberga” del Mondiale 2006 (Portogallo-Olanda 1-0, sedici ammoniti), l’eliminazione ad Euro 2008 per mano della Russia, a un’Olanda scompensata dalla vicenda Boulharouz, il giocatore che nei giorni di quel torneo perse la figlia nata prematura. Tutta la squadra accusò il colpo.
E poi mica possiamo continuare, sono pagine che dovete leggere, perché di cose da dire ne ha avute il tre volte pallone d’oro. Che qualche settimana fa, al settimanale del “Corriere della Sera”, ha sintetizzato il tutto con il più chiaro dei pensieri: “Chi sono oggi? Un uomo fragile che è sceso a patti con le sue debolezze”. Fragile, appunto. Anche se ti chiami Marco Van Basten.