Si è scritto che chi gioca a rugby cresce in ambienti che plasmano prima di tutto i valori. Si è scritto che i tifosi sono sempre pronti a brindare alla correttezza. Si è scritto che quello è uno sport sano. Sono anni che il mondo della palla ovale riceve il plauso di giornalisti, sportivi e uomini di cultura per via della presunta superiorità morale rispetto ad altri sport, il calcio su tutti.
Eppure, si moltiplicano i casi di doping e gli episodi di laser puntati dritti verso i giocatori. Sugli spati degli stadi incominciano a comparire anche i primi hooligans. L’attenzione verso il rugby e la sua inattesa popolarità è pronta a mostrarne il volto umano, il suo distacco da un mondo dei valori al quale ogni attività fatta da donne e uomini non può appartenervi. La vicenda che racconta meglio quanto questo sport sia identico tutti gli altri è legato alla finale di coppa del mondo di rugby del 1995 in Sudafrica.
Il Sudafrica di Mandela
Siamo nella metà precisa degli anni novanta: l’Occidente ha dimenticato la guerra fredda, l’Italia pallonara è reduce dalla sconfitta ai rigori di Pasadena, Nelson Mandela è presidente del Sudafrica da un anno. Fuori dalla cella in cui fu detenuto per 27 anni, il Nobel per la Pace, il simbolo della lotta all’apartheid, ha il compito di unificare una società divisa da decenni di politiche razziali.
Dall’epoca del colonialismo olandese fino a quel punto, le differenze fra bianchi e neri in termini di libertà civili e politiche erano più importanti di quanto non lo fossero state in Alabama e nel sud degli Stati Uniti. A queste va a sommarsi una forbice economica ampissima che ancora caratterizza le differenze di pelle del Paese.
In quel contesto di tensione palpabile, di fronte all’imminenza dello scontro sociale, il rugby rimane come sempre lo sport, l’attività ludica, il campo d’addestramento dell’uomo bianco. Olandesi e tedeschi l’avevano trapianto in Africa secoli prima: una sorta di costume culturale che si intonava bene con lo sfruttamento di risorse e persone.
Purtroppo, i loro eredi erano ancora gli unici a praticarlo. Negli stadi sudafricani, fino agli anni ottanta, comparivano spesso striscioni con slogan razzisti dello stesso tenore di quelli si leggono nei palazzetti e negli stadi di altri sport. La popolazione nera tifava da sempre contro la nazionale africana e si rifiutava di toccare la palla ovale. Malgrado quello fosse il simbolo di anni di colonialismo, Mandela era convinto che proprio il rugby, quell’attività che tanto aveva separato bianchi e neri, Afrikaner e popolazione indigena, potesse unire il sentimento nazionale del Paese e portare alla definitiva armonia.
Mandela e il rugby
Si racconta che il leader dell’ANC (il partito anti-apartheid) si avvicinò a quello sport filo-boero proprio durante il periodo della sua detenzione nel carcere di Robben Island. A quanto pare, vedendosi più volte respinta la richiesta di ottenere un fornelletto da campo, Mandela cercò di arrivare direttamente al direttore della struttura, tale Maggiore Van Sittert, grande appassionato di rugby. Imparò le regole, lesse la storia e gli aneddoti, memorizzò i nomi dei giocatori più importanti solo per avere un argomento di cui conversare con il direttore.
Una volta libero ed eletto, il presidente capì quanto uno sport di squadra in cui il singolo è al servizio del gruppo potesse fare per il suo Paese. Ottenne di ospitare i mondiali, pubblicizzò la nazionale e l’avvicinò alla popolazione. I giocatori impararono a memoria Nkosi Sikelele, inno nero del Paese, furono costruiti campi e vennero istituiti allenamenti aperti al pubblico. Il rugby fu usato come uno strumento politico e sociale a tutti gli effetti.
La coppa del mondo di rugby del 1995
Il mondiale cominciava portandosi dietro l’entusiasmo di una larga parte della popolazione, si respirava una coesione mai conosciuta prima nella storia del Sudafrica colonizzato. La nazionale chiuse il girone a punteggio pieno; nei quarti eliminò le Isole Samoa e in semifinale la Francia, la squadra con il miglior gioco del torneo a detta di molti.
Il 24 giugno del 1995, a Johannesburg, la formazione di capitan Pienaar, composta per venticinque ventiseiesimi da giocatori di origine europea, si trova di fronte all’occasione di realizzare il progetto di Mandela e vincere la coppa del mondo di rugby. Gli Springboks affrontavano la Nuova Zelanda (squadra favorita) a Ellis Park, di fronte al presidente e a migliaia di spettatori uniti sotto gli stessi colori.
A metà incontro, la nazionale sudafricana conduce per 9 a 6, ma nella ripresa vengono fuori gli All Blacks che pareggiano al termine dei minuti regolamentari. Si va ai supplementari. Il Paese è stretto attorno alla nazionale. Joel Stransky, mediano d’apertura di origine polacca che fino a lì aveva realizzato i tre calci piazzati in favore del Sudafrica, piazza il drop che segna la fine dei giochi: il colpo del KO che chiude la partita e manda in estasi il Paese.
Il Sudafrica vince la sua prima coppa del Mondo di rugby e conosce, per un istante, l’armonia sociale che era l’obiettivo del progetto. Una splendida storia di sport e di valori, una di quelle su cui fare un film come Invictus, non fosse per i retroscena. Irrilevanti rispetto alla prospettiva di uno stato riappacificato, ma comunque fondamentali per mostrare che il rugby, come tutti gli altri sport, è un’attività umana e le attività umane non sono mai prive di scorrettezze e comportamenti ingiusti.
L’intossicazione alimentare
Molti protagonisti di quell’edizione del campionato mondiale di rugby hanno negli anni denunciato il fatto di essere stati colpiti di problemi intestinali e malessere generale a ridosso degli incontri contro la squadra di casa. Due team su tutti: quello francese e quello neozelandese poi sconfitto nella finale di Johannesburg. Secondo l’accusa più probabile, la federazione rugbistica sudafricana avrebbe in qualche modo intossicato le squadre per agevolare il compito degli Springboks.
Ovviamente, non ci sono certezze a riguardo, ma rimane il fatto comprovato: prima delle partite più importanti del torneo, le due squadre più forti che il Sudafrica potesse incontrare hanno sofferto di problemi di salute debilitanti subito dopo i pasti. Testimoni oculari vicini allo stesso Mandela raccontano di All Blacks sopra i cento chili sdraiati per terra nel ristorante dell’albergo per via dei dolori. Nell’ambiente, è accettato ormai che quella del 1995 sia stata una mezza vittoria, un evento ancora da chiarire.
Le ipotesi
Su questo fatto, su queste presunte intossicazioni alimentari, ci sono tre plausibili letture: è possibile che l’episodio sia stato casuale e che gli sconfitti di quel mondiale non abbiano saputo accettare il verdetto del campo; secondo, è possibile che l’avvelenamento sia stato voluto dalla federazione rugbistica sudafricana; terzo, come sostenuto dalla guardia del corpo di Mandela, è possibile che l’avvelenamento sia stato messo in opera da una società di scommesse clandestine pronta a falsare l’incontro decisivo per fini economici. In tutti e tre i casi, malgrado la gravità dell’accusa sia differente, il rugby esce dall’aura di santità con cui spesso viene dipinto.
Se la prima ipotesi fosse vera, i valorosi uomini di sport, sempre pronti ad accettare il risultato del campo e le decisioni arbitrali, quelli che si abbracciano fra avversari durante il terzo tempo, finirebbero per essere uomini comuni con il dente avvelenato. Incapaci di digerire la sconfitta nella finale della coppa del mondo di rugby. Se fosse stata la federazione ad avvelenare i propri avversari, saremmo di fronte a un caso clamoroso di ingiustizia e antisportività che ha pochi eguali nella storia.
Se invece l’intossicazione fosse mano di una società di scommesse, varrebbe la pena capire quante persone nel mondo del rugby ne furono implicate: non si avvelenano due squadre di quel livello e con quella struttura organizzativa senza appoggi interni. Il rugby, insomma, ha mostrato in quel caso la sua autenticità, il suo essere sport come evento fatto da esseri umani e non da super-eroi votati alla morale.
La moralità e il rugby
Oggi che la sua popolarità cresce, oggi che è diventato uno sport di Serie A, i grandi numeri nel rugby portano a molti più casi deprecabili dal punto di vista sportivo ed etico. Scopriamo che gli ultras sono ultras e non perdono occasione per destabilizzare l’ambiente indipendentemente dalla sfericità della palla; scopriamo che i giocatori si dopano anche e soprattutto quando il loro compito è fermare una Panda che arriva a venti chilometri all’ora; scopriamo che anche nei campi pieni di fango ci sono giri di scommesse non regolari; scopriamo (ed è roba di casa nostra) che nei settori giovanili ci sono indagini per abusi sessuali e violenza sui minori.
L’etica e lo sport
Questo non vuole essere un atto di accusa contro la coppa del mondo di rugby, ma piuttosto un’analisi tesa a demistificare lo sport come canale preferenziale per raggiungere e condividere valori. Lo sport è un’attività fatta da donne e uomini. Come tale non vale la pena di illudersi che chi compete, chi organizza gli eventi, chi vive giorno per giorno sul campo, sia una persona migliore degli altri.
Non vale la pena credere che ci siano sport in cui le persone rintracciano il punto più elevato della moralità e altri in cui tutti i protagonisti sono alla meglio dei lacchè. Lo sport è competizione e sfida, si vince per bravura e talvolta con l’inganno, con trucchi meschini e al limite delle regole. È sbagliato, ma è cosi. Nel calcio, nel rugby e in qualsiasi altro gioco in cui c’è competizione e la vittoria è l’obiettivo, il valore, più importante, ci sono (e sempre ci saranno) casi di ingiustizia.