Siamo abituati a religioni che ci raccontano di un Dio misericordioso, buono, migliore degli uomini che ha creato.
Un Dio giudizioso, che anche quando semina morte lo fa per il nostro bene. Un Dio sempre attento ai suoi figli, che siamo tutti noi. Un Dio che ascolta le nostre preghiere, che è felice se ci presentiamo in chiesa, in sinagoga, in moschea ma anche se preghiamo nel silenzio della nostra casa, nell’intimità che solo il Signore sa creare.
La fede è un qualcosa di forte, di viscerale, che si impossessa di noi e innalza la nostra anima a Dio.
Credere in un Dio che si è fatto uomo per portare in Terra il suo messaggio è cosa che accomuna cristiani e musulmani, con gli ebrei che invece ancora attendono la discesa del Messia, ma che come le due sorelle credono profondamente che questo accadrà.
E come i cristiani, i musulmani, gli ebrei, anche noi crediamo nel Signore che si fa uomo, che nasce, proprio come Gesù Cristo, ultimo tra gli ultimi, ai confini del mondo, nella povertà.
Il nostro Dio si esprime con i piedi, che come Gesù Cristo con la bocca, utilizza per creare parabole.
Anche il nostro è un Dio buono: d’animo e di spirito. E noi lo veneriamo tutte le domeniche, nel Tempio laico che è lo Stadio.
Preghiamo quando tocca palla; parliamo con lui mentre salta il primo avversario e poi il secondo; chiudiamo gli occhi e giungiamo le mani quando si trova sul dischetto, anche se non serve a niente perché sappiamo che Isso non sbaglierà. Mai.
Ma il nostro è un Dio più umano degli umani stessi. È un Dio che in campo non ha eguali e da tutti è venerato, compagni e avversari, argentini e brasiliani, napoletani e juventini.
Ma non crediate che possa bastare essere un Dio su tappeto verde per diventare Isso, l’Idolo delle masse, l’Eroe dei due mondi come Garibaldi centoventi anni prima. Ci vuole altro.
Bisogna diventare figlio della città che ti ospita e Lìder del paese che ti ha dato i natali per conquistare il cuore dei fedeli.
Ma ai fedeli, si sa, piace rispecchiarsi nel proprio Idolo. E trovarlo a propria immagine e somiglianza.
Ed è per questo motivo che Diego Armando Maradona, nato il 30 ottobre 1960 dall’altra parte del mondo (per citare un altro argentino celebre che si è detto addolorato della notizia, Papa Francesco), è divenuto un Credo.
Senza vizi un uomo cos’è?
Lo sapete cosa penso del perché Pelè non è venerato come Maradona (e forse nemmeno come Socrates)? Perché Pelè sta là, in alto, imperturbabile, perfetto. Mai una polemica, mai il sentore di un vizio che potrebbe lederne l’immagine. Bello nella vita come lo era in campo quando trascinava il Brasile alla conquista dei suoi primi tre mondiali e allo scettro Rimet.
Pelè sembra dirti:
“Dai tutto ragazzo, credici, provaci. Non diventerai mai come me perché io sono io, ma tu devi far di tutto per diventare almeno il secondo di sempre”.
Diego è tutto il contrario. Diego, in un corpo di poco più di un metro e sessanta, racchiude una quantità di vizi incredibile, nella quale ognuno di noi o quasi può riconoscersi. Chi di noi non è mai stato uno stronzo nella sua vita? Chi non ha mai commesso una scelta sbagliata? Chi di noi può dirsi perfetto? Chi di noi è pronto a dichiararsi senza vizi davanti a Dio e al popolo? Nessuno. Ed è per questo che amiamo Maradona e lo amiamo più di Pelè.
Noi vogliamo rivederci nei nostri idoli. Noi vogliamo credere di essere in parte come loro.
Vogliamo dirci: Hai visto il tatuaggio del Che sul braccio di Maradona? È come il mio!; Diego ha problemi con l’alcol. Anche io dovrei andarci più piano; La cocaina lo ha rovinato. E anche il nostro amico non sta benissimo per colpa di quella merda; Ma che goal ha fatto Diego? No, uno così io non lo farò mai.
Come potremmo pensare lo stesso di Ronaldo che fa crioterapia o di Messi che pare non abbia nessun interesse al di fuori del calcio?
Diego Armando Maradona era uno di noi al quale la natura aveva regalato un’eleganza nel piede sinistro senza pari al mondo. L’uomo che ha trasportato il calcio, assieme a illustri colleghi, dalla spensieratezza dei primi anni ’80 al super professionismo della fine del millennio; un calciatore in grado di far vincere lo scudetto a Salvatore Bagni e Giuseppe Bruscolotti e un mondiale a Pasculli e Ruggeri.
Ieri sera, appresa la notizia, mi è salita la voglia di scrivere a tutti gli amici e conoscenti napoletani per fargli le condoglianze. Perché è come se fosse morto uno di famiglia, uno al quale eravamo legati a doppio filo, uno che ci ha regalato cose che mai nessun altro riuscirà a eguagliare. Perché sì, Mertens e Hamsik hanno superato il record di reti in maglia azzurra di Diego, ma davvero possiamo mettere sullo stesso piano le reti di D10s e la loro importanza per quella Napoli con quelle di due fuoriclasse come Ciro Mertens e Marekiaro? Non scherziamo.
Ora Diego non c’è più e noi non sappiamo più cosa aspettarci dallo sport che amiamo. Pensavamo fosse già insuperabile lo shock di un calcio senza tifosi, ma ora che abbiamo la certezza che sarà per il resto dei giorni un calcio senza Maradona, siamo certi di poterlo ancora chiamare calcio?
Gracias Dios, por el fùtbol, por estas lágrimas, por Diego Armando Maradona.
Davide Ravan