Il campione che non ti aspetti ha deciso di farsi portavoce di un messaggio di speranza per chi soffre come lui di disturbi dello spettro autistico, dimostrando quanto anche con le difficoltà si possano raggiungere obiettivi straordinari.
“Caro signor Whelan,
Volevo scriverle e spiegarle le ragioni per cui non ho indossato il poppy sulla maglia per la partita con il Bolton.
Ho totale rispetto per coloro che hanno combattuto e sono morti in entrambe le guerre mondiali – molti che conosco erano di origine irlandese. Mi è stato detto che suo nonno Paddy Whelan, di Tipperary, era uno di quelli.
Piango la loro morte come ogni altra persona decente e se il poppy fosse un simbolo solo per le anime perdute della Prima e della Seconda guerra mondiale ne indosserei uno.
Voglio chiarirlo al 100%. Deve capirlo.
Ma il poppy è usato per ricordare le vittime di altri conflitti da dopo il 1945 ed è qui che inizia il problema per me.
Per le persone del nord dell’Irlanda come me, e in particolare quelle di Derry, teatro del massacro della Bloody Sunday del 1972, il poppy ha assunto un significato molto diverso. La prego di comprendere, signor Whelan, che quando lei viene da Creggan come me o dal Bogside, Brandywell o dalla maggior parte dei posti a Derry, ogni persona vive ancora all’ombra di uno dei giorni più bui della storia d’Irlanda, anche se come me è nato quasi 20 anni dopo l’evento. È una parte di ciò che siamo, radicata in noi dalla nascita.
Signor Whelan, per me indossare un poppy sarebbe tanto un gesto di mancanza di rispetto per le persone innocenti che hanno perso la vita nei Troubles – e nella Bloody Sunday in particolare – quanto in passato sono stato accusato di mancare di rispetto alle vittime della Prima e della Seconda guerra mondiale.
Sarebbe visto come un atto di mancanza di rispetto verso quelle persone; verso la mia gente.
Non sono un guerrafondaio, o anti-britannico, o un terrorista o nessuna delle accuse che mi sono state rivolte in passato. Sono un ragazzo pacifico, credo che tutti dovrebbero vivere fianco a fianco, qualunque siano le loro convinzioni religiose o politiche che rispetto e chiedo alle persone di rispettare le mie in cambio. Dallo scorso anno sono padre e voglio che mia figlia cresca in un mondo sereno, come ogni genitore.
Sono molto orgoglioso delle mie origini e non riesco proprio a fare qualcosa che credo sia sbagliato. Nella vita, se sei un uomo, dovresti difendere ciò in cui credi.
So che potrebbe non essere d’accordo con i miei sentimenti, ma spero vivamente che lei possa capire le mie ragioni.
Come proprietario del club per cui sono orgoglioso di giocare, credo di dovere questa spiegazione sia a lei che ai tifosi del club.
Sinceramente tuo,
James McClean”
Questa che avete appena letto è la lettera che James McClean, centrocampista del Wigan, scrisse al suo presidente Dave Whelan per spiegargli le ragioni del suo rifiuto a indossare il poppy, il papavero rosso che i giocatori in Gran Bretagna indossano all’altezza del cuore nel secondo weekend di novembre.
Call my name
James McClean, il “giocatore più odiato d’Inghilterra”, non è un personaggio tipico del mondo del calcio. McClean è anzi la dimostrazione più plastica che ci sia che il calcio non è un mondo a parte ma nasce, cresce, si nutre e si arricchisce all’interno delle nostre società e di esse ne assorbe i problemi e le preoccupazioni.
Per McClean è impossibile separare lavoro -quello di calciatore professionista- e vita privata, come d’altronde è impossibile separare il dolore atroce della Bloody Sunday da un giudizio sul Regno Unito per tutti gli abitanti cattolici e/o repubblicani di Derry, la città di cui James è originario.
Ma questo non è un articolo sui Troubles nordirlandesi o sul James McClean attivista, ne sono già stati scritti in passato (e in alcuni casi sono articoli molto validi, vedasi Minuto78) e sarebbe solo un riproporre qualcosa di già letto e sentito.
Questo è un articolo su un qualcuno che ha deciso, nella sua vita, di stare sempre dall’altra parte della barricata. James McClean ha deciso di stare sempre dall’altra parte, di essere protagonista solo quando sono gli altri a deciderlo (leggasi: gli insulti sui campi britannici quando non indossa il poppy). James ha addirittura deciso di parlare di un disturbo, in un universo costituito da Superuomini o presunti tali, talmente perfetti da apparire alieni a chi li tifa.
In morte di Sua Maestà
“Buckingham Palace ha comunicato la morte di Sua Maestà la Regina”. Con queste parole il giornalista della BBC Huw Edwards annunciava al mondo la scomparsa della Regina Elisabetta II, avvenuta dopo un regno durato settanta anni e duecentoquaranta giorni.
La Gran Bretagna si è bloccata per quasi quindici giorni: sospese tutte le attività non essenziali tra le quali quelle sportive, con anche le partite dei campionati professionistici rinviate a data da destinarsi, nonostante l’incombere di un inusuale mondiale autunnale che costringeva tutte le federazioni calcistiche a comprimere i calendari prima della sosta di un mese e mezzo in programma da inizio novembre.
Ma la morte di Sua Maestà viene prima del calcio e così anche le leghe professionistiche si stoppano.
Al ritorno in campo tutti i giocatori, di tutte le categorie, indossano il lutto al braccio e si dispongono a metà campo per il minuto di silenzio.
L’unica voce fuori dal coro, manco a dirlo, è quella di James McClean, che sì indossa il lutto al braccio e rispetta il minuto di silenzio, ma lo fa in solitudine, ovvero senza rimanere abbracciato ai suoi compagni di squadra.
Inutile sottolineare che il gesto non è passato inosservato e dagli spalti, e non solo in quella prima partita, James è tornato a essere il giocatore più odiato d’Inghilterra senza nemmeno dover aspettare novembre e la ricorrenza dei poppy.
Ma era necessario il gesto di McClean? Per chi ha fatto delle ragioni di un popolo le sue stesse ragioni di vita assolutamente sì: Elisabetta II resterà per sempre la sovrana che premiò per la sua carriera militare, nominandolo Cavaliere, Derek Wilford, il comandante del battaglione dei paracadutisti che diede l’ordine di sparare sulla folla a Derry il 30 gennaio 1972, ovvero il giorno passato alla storia come Bloody Sunday, il giorno più triste e cruento per la comunità cattolica di Derry, di cui come già detto McClean fa parte.
Difficile non biasimare McClean per il suo gesto il giorno del minuto di silenzio.
Per qualche mese di James McClean non ne abbiamo sentito più parlare; sì, qualche insulto su ogni campo nel quale si recava a giocare il Wigan, la sua attuale squadra, ma nulla di più, ordinaria amministrazione che non fa più notizia nemmeno nei quotidiani a tiratura locale. Abbiamo pensato che avremmo dovuto attendere il prossimo 8 settembre, primo anniversario della scomparsa della Regina, per sentire nuovamente il suo nome per un qualche gesto non convenzionale. E poi di nuovo silenzio fino al weekend dei poppy e via così.
E invece no. Non ci avevamo capito nulla.
Uno spettro di cui sappiamo troppo poco
C’è un disturbo, non è corretto chiamarlo malattia, di cui ancora oggi si conosce molto poco. Questo disturbo può essere di vario tipo, più forte o più debole, facile da riconoscere o impossibile da scovare. Eppure c’è, è qui in mezzo a noi e alcuni sono costretti a conviverci facendoci i conti tutti i giorni. Questo disturbo è l’autismo, o meglio denominato “disturbi dello spettro autistico“, ed è un disturbo del neuro-sviluppo che coinvolge principalmente linguaggio e comunicazione, interazione sociale, interessi ristretti, stereotipati e comportamenti ripetitivi (fonte: portale-autismo.it).
Ogni anno, dal 2007, si celebra la Giornata mondiale autismo, voluta dalle Nazioni Unite per sensibilizzare la popolazione mondiale su questo disturbo. Per l’occasione i monumenti di tantissime città del pianeta vengono illuminati di blu, il colore dell’autismo, e vengono organizzate iniziative volte a far conoscere a più persone possibili i disturbi dello spettro autistico.
Da qualche tempo, oltre alla Giornata mondiale autismo, esiste la Settimana di sensibilizzazione nei confronti dei Disturbi dello spettro autistico, che culmina proprio nella Giornata mondiale.
Ma cosa ha a che fare l’autismo e il programma di sensibilizzazione voluto dalle Nazioni Unite con la storia di James McClean? Presto detto.
Il 29 marzo scorso, appena prima del via della Settimana di sensibilizzazione, con un post su Instagram il nostro ha rilasciato una dichiarazione che ha lasciato tutti a bocca aperta.
Postando una foto assieme a sua figlia Willow-Ivy, il centrocampista del Wigan e della nazionale irlandese ha scritto:
“Come tutti sapete, mia figlia Willow-Ivy è autistica. Gli ultimi 4 anni mi hanno cambiato la vita nel modo più sorprendente, ma è stato anche molto difficile a volte, mentre suo papà la guarda superare tutti questi ostacoli che la vita le ha posto, imparando a gestire le sfide che affronta quotidianamente. Più Erin e io apprendevamo sull’autismo, più abbiamo iniziato a capito che ero molto simile a Willow più di quanto pensassimo. Vedo tante cose in lei che vedo anche in me stesso. Così ho deciso di andare a fare un esame dell’ASD. È stato un viaggio e ora avendo una diagnosi certa, sento che è arrivato il momento di condividerlo, visto anche il periodo). Ho riflettuto per un po’ di tempo se renderlo pubblico e condividerlo, come ho fatto per Willow-Ivy, per farle sapere che capisco e che essere autistico non deve mai impedirle di raggiungere i suoi obiettivi e sogni”.
All’improvviso, senza che nessuno se lo aspettasse, un atleta di primo livello decide di rendere pubblico il suo disturbo. Dichiara di essere autistico e lo fa dicendolo di averlo scoperto “grazie” a sua figlia, autistica a sua volta.
La forza di quel post su Instagram è prorompente: James McClean, il giocatore più odiato d’Inghilterra, decide di lanciare un messaggio a tutte le persone che soffrono di questo disturbo dicendo loro che con questo problema si può convivere, si possono superare gli ostacoli e che si possono raggiungere obiettivi altissimi, tipo quelli raggiunti da lui nello sport.
Questo messaggio, così forte, spronerà sicuramente tantissime persone affette da autismo a non mollare e a continuare, o a ricominciare, a perseguire i propri obiettivi. E magari aiuterà bambine e bambini con il sogno di fare le calciatrici e i calciatori a non arrendersi nonostante il disturbo.
Separare il nome di James McClean dalle prese di posizione sui poppy o sul minuto di silenzio in memoria di Elisabetta II sarà impossibile, e nemmeno lui probabilmente lo vorrebbe, ma sarà anche impossibile dimenticarsi in futuro di questo messaggio sull’autismo.