Mille e una Rossa

Sul circuito del Mugello la Ferrari festeggia il suo millesimo Gran Premio. L’ennesimo traguardo di una Scuderia che, in Formula 1, è divenuta leggenda.

Mille, il numero della leggenda Ferrari celebrato in terra italiana tra le curve e i cordoli del Mugello. Quante coppe alzate al cielo, quante vicende, vittorie, sconfitte, discussioni, incomprensioni, lacrime, gioie. Quanti traguardi, sorrisi, abbracci, fallimenti, festeggiamenti e addii da quel 21 maggio del 1950 quando, a Monte-Carlo, la Scuderia di Maranello diede ufficialmente inizio alla sua gloriosa storia in Formula 1. Una storia colorata di trentuno titoli mondiali e tanti campioni. Sfogliando tra le innumerevoli imprese dei cavalieri del Cavallino, comprese quelle che non hanno visto un epilogo trionfale, ho scelto di ripercorrere un poker di ricordi vittoriosi e alquanto indimenticabili.

Cominciamo il nostro viaggio temporale il 14 luglio del 1951. Vi ricordate di colui che fu definito come “il Toro della Pampas”? L’argentino José Froilàn Gonzales, “El Cabezòn” per i suoi connazionali, è un pilota piccolo di statura, scuro e un po’ grassottello, scelto da Enzo Ferrari con lo scopo di ottenere la prima vittoria in Formula 1. Il 1950 consegna il sigillo iridato a Nino Farina e la sua Alfa Romeo. E nel campionato seguente, l’Alfa sembra ancora imbattibile. Una realtà inaccettabile per il Commendatore, che attribuisce la mancata vittoria rossa alla scarsa grinta in pista dei suoi piloti. Così ingaggia Gonzales, uno che di energia ne ha da vendere, che stringe il volante con le braccia larghe il corpo proteso in avanti. Un concentrato di furore agonistico che, come nessun altro, rincorre e sorpassa prepotentemente chiunque gli sia a tiro. A Silverstone, sul terreno desolato di un campo di aviazione, tutto è pronto per ospitare il Gran Premio di Gran Bretagna. Ascari e Villoresi hanno a disposizione le 375 M, a differenza di Gonzales, al quale Ferrari ha assegnato una 375/2 S degli inizi del 1950. L’argentino inaugura il suo esordio nell’arena inglese segnando il miglior tempo in prova, oltre mezzo secondo di vantaggio sull’Alfa 159 guidata dal connazionale Juan Manuel Fangio.

Nella prima fila della griglia di partenza, Gonzales è affiancato dalla coppia di alfisti Fangio-Farina; dietro di loro l’altro ferrarista Villoresi e le Alfa Romeo di Sanesi e Bonetto. Al primo giro è proprio quest’ultimo a prendere il comando grazie ad un’ottima partenza, ma viene subito raggiunto da Gonzales. Fangio, lo segue come un’ombra e lo supera al decimo giro, ma “il Toro” gli resta in scia, e torna primo alla trentanovesima tornata. Siamo a più di metà gara e Gonzales rientra ai box per un veloce rifornimento, convinto di dover cedere la sua vettura ad Ascari, ritiratosi pochi giri prima per la rottura del cambio. L’italiano nota con attenzione che il volto di Froilàn è teso, concentrato, i suoi occhi sono arrossati. Di fronte a quest’immagine, Ascari decide di rinunciare a chiedergli il posto, incoraggiandolo con un urlato: “Continua tu!”. E così, il pilota riparte, rientrando in pista davanti all’amico-rivale Fangio. A separarli, un distacco di circa 50 secondi che Gonzales mantiene sino allo sventolio della bandiera a scacchi. Con la sua Rossa n°12, taglia il traguardo da vincitore. Un momento memorabile: è lui a regalare la prima vittoria della Scuderia Ferrari in Formula 1, nel giorno della prima sconfitta dell’Alfa Romeo.

Nel 1970, a Monza, c’è chi è pronto a disputare il quinto Gran Premio della propria carriera al volante di una 312 B davanti a 150mila tifosi. L’autodromo del Tempio della Velocità pulsa della passione Ferrari, con gli appassionati persino appollaiati sui tabelloni pubblicitari pronti ad acclamare e incitare i propri beniamini, tra cui il trentunenne Clay Regazzoni. Il pilota svizzero arriva alla corsa italiana con due quarti posti, un podio argentato e un ritiro. Al via manca all’appello la Lotus, in lutto per Jochen Rindt, scomparso a causa di un incidente in prova. Regazzoni parte terzo, dietro alla BRM di Pedro Rodriguez, al compagno di squadra in Ferrari, Jackie Ickx, e davanti Jackie Stewart, su March.

Dopo il ritiro di Ickx per il cedimento della frizione, al trentaduesimo giro Clay è primo, con Stewart, il Campione del Mondo in carica, alle calcagna. Tra i due, inizia un duello da tachicardia fatto di coraggiose staccate, incredibili traiettorie e accelerazioni controllate, tutte inserite in un gioco di scie che soltanto Monza è in grado di offrire. Allo scozzese, Clay, non cede nulla. Al cinquantacinquesimo passaggio, il colpo di scena: Beltoise, aiutato dalla scia delle vetture che lo precedono, mette la sua Matra davanti a tutti. Il pubblico si spegne in un assordante mutismo, per poi riaccendersi in una calorosa ovazione nell’instante in cui vede, davanti ai box, transitare nuovamente in testa la Rossa n°4 di Regazzoni. Il ferrarista, per non farsi raggiungere, percorre il lungo rettilineo a pochi centimetri dal muretto e, con l’involontaria partecipazione di Beltoise, rompe il gioco delle traiettorie di Stewart staccandosi da entrambi. Ulteriormente motivato da un incredibile tifo, Clay continua la sua rincorsa al gradino più alto senza commettere il minimo errore, distanziando di circa sei secondi i suoi inseguitori. All’abbassarsi della bandiera a scacchi, il pubblico invade la pista e, scandendo il suo nome, lo porta in trionfo sin sotto il podio della premiazione. Da quel giorno, entra nel cuore di tutti i tifosi. Ma non solo per aver portato una vittoria in più a Maranello. Clay era speciale, simpatico, affabile, gli piaceva il contatto diretto con la gente. “Altri tempi”, avrebbe commentato, con il suo inconfondibile italiano dall’accento svizzero.

Facendo un ventennale salto in avanti, arriviamo al 1990. Un anno in cui, l’8 luglio, l’Italia ha gli occhi puntati sullo Stadio Olimpico di Roma, per la finale dei Mondiali di calcio tra Germania Ovest e Argentina. Gli azzurri avevano deluso ogni aspettativa, perdendo ai rigori l’accesso alla tanto sognata finale. A rincuorare gli animi tricolore, durante quel caldo pomeriggio estivo, ci pensa la Nazionale a motori, che centra la sua centesima vittoria in Formula 1. Lo fa sul tracciato di Le Castellet, in occasione del Gran Premio di Francia, settimo appuntamento in calendario. La Ferrari dispone della 641, una monoposto molto competitiva, affidata al Campione in carica ex McLaren Alain Prost e a Nigel Mansell, un pilota d’attacco già schierato dalla Casa del Cavallino nella stagione precedente. Ancora una volta, è la McLaren l’avversaria da battere, con Ayrton Senna e l’ex ferrarista Gerhard Berger. Mansell conquista la pole, davanti le McLaren e l’altra Ferrari. Dietro segue un trio tutto italiano con la Benetton di Alessandro Nannini, la Williams di Riccardo Patrese e la Leyton-House di Ivan Capelli. Allo spegnimento dei semafori Berger brucia Mansell, imitato al secondo giro da Senna. Alle spalle del Leone inglese si danno battaglia Nannini e Patrese, Prost e la Williams di Boutsen, quest’ultimo poi costretto al ritiro all’ottavo giro. Quando tutti i piloti davanti rientrano ai box per il cambio gomme, le Leyton-House di Capelli e Gugelmin restano in pista e, con un buon passo gara, balzano al comando. Al quarantacinquesimo giro, il motore Judd V8 di Gugelmin va in fumo. Al nostro Ivan, dunque, il compito e l’onore di difendere la prima posizione su Prost, che insegue con sette secondi di distacco. Le efficienti gomme nuove offrono al francese in rosso l’opportunità di avvicinarsi sempre più a Capelli che, nell’angusto abitacolo progettato da Newey e con il caldo torrido, soffre le pene dell’inferno. “Le Professeur” recupera terreno senza correre rischi. Invece, il vero problema di Ivan è il suo motore che, a qualche giro dal termine, inizia ad emettere sinistri borbottii. Deve rallentare, se vuole concludere la corsa. A due giri dal termine, Prost lo sorpassa e conclude in testa, regalando alla Ferrari la sua centesima vittoria a quasi quarant’anni di distanza dal suo primo successo nella massima serie.

Sei stagioni più tardi, in Spagna, la Casa di Maranello assiste al preludio di quella che diventerà la sua era più vincente. Quando Michael Schumacher arriva in Ferrari, la Scuderia del Cavallino stava attraversando un periodo buio: solo due vittorie in cinque campionati consecutivi. L’ultimo titolo Costruttori risaliva al 1983, mentre quello piloti era stato conquistato ben sedici anni prima con Jody Scheckter. Una tristezza unica per la Casa italiana. Jean Todt, il direttore generale della Scuderia, ingaggia per il 1996 il pilota più forte del momento, il ventiseienne Michael Schumacher, già vincitore dei Mondiali del 1994 e del 1995 con la Benetton gestita da Flavio Briatore. Todt, stravede per il tedesco e fa di tutto per modellargli intorno un team vincente. Lo protegge e lo coccola come merita: è un bicampione, e ha accettato di affrontare un’impresa non riuscita a tanti. Schumacher prova e riprova la monoposto rossa, la fa modificare, la prova ancora, al mattino, dal pomeriggio sino a sera. I ritmi imposti sono serrati, la concorrenza è spietata e c’è un gap importante da recuperare.

Si arriva al Montmelò, al settimo Gran Premio stagionale, senza una vittoria. In qualifica Schumi fa il terzo tempo, dietro le due Williams e davanti le due Benetton. Il sabato sera inizia a piovere, e la pioggia non ha intenzione di smettere nemmeno il giorno seguente. Domenica 2 giugno, sotto un’acqua battente, scatta la gara. Michael ha problemi con la frizione e si vede sfilar via parecchie vetture, pure quella del compagno di squadra Eddie Irvine. È settimo. Con le potenzialità di Schumacher, sempre veloce e concentrato, la Ferrari può attuare una strategia diversa, a due soste, con la sua vettura che “imbarca” meno carburante rispetto alle altre. Così, in pista, gira due o tre secondi più veloce dei primi e li recupera a vista d’occhio. Irvine si gira, Michael sorpassa la Jordan di Barrichello, Hill fa un’escursione fuori pista e gli rientra alle spalle. Al quinto giro, Schumacher è l’unico che viaggia come fosse sui binari. Il pubblico si entusiasma: è da Donington ’93 che non si assiste ad uno spettacolo simile, all’epoca messo in scena da Ayrton Senna. Il tedesco sorpassa la Benetton di Berger e punta quella di Jean Alesi, sorpassandolo al nono giro, come fosse un doppiato. Il tempo di tre passaggi e Schumacher raggiunge Villeneuve, lo supera e va in testa. Hill non riesce più a governare la vettura, all’ennesimo fuoripista finisce la sua corsa contro il muro, mentre Michael ottiene un altro giro veloce e prosegue la sua marcia trionfale sino alla fine, senza avversari. Primo Schumacher, secondo Alesi e terzo Villeneuve.

È la sua prima vittoria in Ferrari, la ventesima in carriera. Ai box è festa grande. L’Ing. Giorgio Ascanelli ha seguito gli ultimi giri con il timore che la rottura di uno scarico della Rossa di Schumi potesse compromettere il risultato. Festa grande anche sul podio, con Todt che abbraccia e bacia Michael, sorridente, che lo ricambia innaffiandolo di champagne come un pulcino indifeso. Tutta la Squadra gioisce e, con loro, tutti i tifosi. Era chiaro a tutti che quella vittoria non sarebbe rimasta un caso isolato. Un segnale importante, di fiducia, che con pazienza e duro lavoro avrebbe portato a un periodo di dominio assoluto. Mille e più di mille saranno i Gran Premi in rosso da raccontare. Per ora, restiamo in attesa di quello che, ancora una volta, farà riassaporare la felicità di una vittoria, l’emozione di una conquista. Di quello che, per davvero, rappresenterà il senso di Essere Ferrari.

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