Tanto amato e rispettato in Italia, quanto criticato ed osteggiato in Inghilterra. Nel weekend della celebrazione del Trofeo a lui dedicato, un pensiero su Lorenzo Bandini.
È l’82° giro del Gran Premio di Monaco 1967, 8 maggio di quell’anno. Mancano sessanta chilometri alla conclusione della gara più celebre dell’automobilismo insieme alla 24 Ore di Le Mans e alla 500 Miglia d’Indianapolis e Denny Hulme è ininterrottamente in testa alla corsa dal 14° passaggio sulla sua Brabham-Repco, dopo aver approfittato del ritiro di Jackie Stewart per via della rottura di corona e pignone.
Al suo inseguimento c’è una Ferrari, la #18. È guidata da Lorenzo Bandini, il quale aveva preso la testa della gara al primo giro per poi cederla proprio ad Hulme. Sono passati tre anni dalla sua singola vittoria in F1 in Austria ma allo stesso tempo Bandini si è già tolto molte soddisfazioni in questo 1967, seppur con altre vetture. Aggiungere la vittoria di Montecarlo ai successi della 1000 km di Monza e della 24 Ore di Daytona di quell’anno sarebbe il coronamento di un sogno che, per un ragazzo di umili origini come lui, sarebbe magico.
La Ferrari numero 18 si avvicina alla Chicane del Porto, nettamente diversa dalla frenata a bassissima velocità e alla variante presente nel circuito cittadino moderno. Il velocissimo sinistra-destra è forse l’insidia più grossa della pista di Monaco, con una barriera sul lato interno all’uscita e delle minimali protezioni in balle di fieno all’esterno, affacciandosi sul mare. È qui che una leggenda come Alberto Ascari, nel 1955, si “tuffò” con la sua Lancia D50 dopo esser uscito di strada, quattro giorni prima della sua scomparsa a Monza; è sempre qui che, due anni prima, Paul Hawkins andò in testacoda sulla sua Lotus ritrovandosi nel Mediterraneo, trovando però la salvezza dopo una nuotata.
È sempre in questo punto che Bandini, ad inizio gara, aveva perso la leadership proprio a favore di Hulme. È nuovamente qui che l’altra Brabham, guidata da Black Jack in persona, aveva rotto il motore perdendo olio e rendendo il tratto ancor più pericoloso di quanto già non sia. Ed è qui che avverrà il dramma, in quell’82° giro.
Bandini, affaticato dai quasi trecento chilometri già compiuti, esce troppo largo dalla chicane, impatta con le balle di fieno esterne e purtroppo con una bitta d’ormeggio nascosta da esse: perde una ruota, la vettura si ribalta ma rimane in pista. Stavolta non è l’acqua l’elemento naturale da cui Lorenzo si deve salvare, ma il fuoco: il serbatoio della sua 312 F1 è esploso e la vettura è inghiottita da un rogo che viene spento solo dopo diversi, agonizzanti minuti.
C’è confusione, smarrimento tra i commissari, privi di qualsiasi tipo di protezione ignifuga. Gli estintori tardano ad ammansire le fiamme e quando lo fanno, sorge persino il dubbio su che fine abbia fatto il pilota. Alcuni pensano che sia stato sbalzato, il cui scenario già sarebbe tragico, ma quello reale è ben peggiore: Bandini è rimasto intrappolato per tutto il tempo sotto la sua Ferrari e l’estrazione è avvenuta con tragico ritardo. Dai box, la moglie Margherita è in apprensione, quasi in trance per ciò che sta succedendo. Denny Hulme, diciotto giri più tardi, diventa il primo vincitore neozelandese della storia della F1, ma è un primato completamente oscurato dal buio della tragedia.
Speranza ed agonia procederanno di pari passo per i successivi tre giorni, quelli in cui Bandini lotterà per la vita in un letto d’ospedale, fino a che a prevalere non sarà la seconda. Bandini lascia questo mondo il 10 maggio nell’ospedale del Principato di Monaco, dopo aver subito ustioni di terzo grado per il 60% del corpo. La sua morte farà prendere importanti provvedimenti sul piano della sicurezza da parte della GPDA (Grand Prix Drivers’ Association), come l’eliminazione delle balle di fieno come barriere e l’accorciamento delle distanze di gara. Cambiamenti che, come spesso accade, arrivano troppo tardi, alle spese di una vita.
In Italia Lorenzo Bandini è passato alla storia come uno dei campioni del Cavallino Rampante mai sufficientemente celebrati e che avrebbero potuto portare ancor più in alto il Bel Paese nelle corse, se solo il destino non fosse stato così crudele. Ed è principalmente per questo che il Trofeo Bandini esiste e resiste tutt’oggi: come ricordo di uno dei massimi esponenti italiani nel motorsport a quattro ruote negli anni ‘60.
Un premio, a dire il vero, che ha le sue radici non negli anni ‘90, da quando l’evento per come lo conosciamo è nato, quanto più al Gran Premio d’Italia 1970. Sul podio, infatti, il vincitore, Clay Regazzoni, venne premiato da Margherita Bandini con il primo trofeo dedicato al marito.
È stato il presidente Francesco Asirelli a svelare questo retroscena durante la premiazione dell’edizione 2022 che ha visto Kevin Magnussen, vincitore designato del 29° Trofeo “ufficiale”.
Per quanto dolorosa, la storia di Bandini ha superato le barriere del tempo arrivando fino ai giorni nostri, anche in un’epoca in cui la F1, soprattutto in Italia, ha perso importanza ed anche identità, divenendo più un prodotto con cui fruttare (e su cui lucrare) che uno sport. La figura di Bandini ci ricorda dunque l’altra faccia della medaglia del Motorsport, dove la competizione, le rivalità e persino la morte possono essere e sono gli aspetti dominanti.
Una seconda faccia della medaglia che, va detto, rappresenta Bandini stesso. La commovente storia del pilota italiano che raggiunge il top, infatti, non è condivisa nella stessa maniera dagli altri Paesi, anzi. Se in madrepatria Bandini è un eroe nazionale annualmente celebrato, in Inghilterra la sua visione assume contorni decisamente meno eroistici e molto più critici, al punto da essere stato addirittura definito pilota scorretto.
Un’immagine, questa, i cui contorni vennero definiti al Gran Premio del Messico del 1964, nella quale John Surtees su Ferrari, Graham Hill su BRM e Jim Clark su Lotus si contesero il titolo mondiale all’ultima gara, in Messico. Una gara che sembrava destinata a finire nelle mani di Clark e che terminò invece con la premiazione di Surtees (secondo dietro Gurney) e della Rossa di Maranello, rendendo così l’ex-motociclista di Tatsfield un Eroe dei Due Mondi del Motorsport (con sette titoli mondiali nelle due ruote e quello in F1 nelle quattro).
I toni utilizzati dalla stampa britannica per dipingere quest’impresa furono decisamente diversi, scagliandosi soprattutto contro Bandini e la sua condotta di gara nei confronti di Graham Hill.
Al 31° giro i due entrarono in contatto al tornante della pista Magdalena Mixucha, con Lorenzo che toccò la ruota posteriore di Hill costringendolo al ritiro: lo zero di Hill giocò un ruolo fondamentale nell’impresa di Surtees.
Nonostante un atteggiamento da vero gentleman driver, il padre del futuro campione Damon Hill non risparmiò una piccata e ben poco velata critica all’italiano, quando nel Natale di quell’anno gli regalò un libro con delle lezioni di guida sicura. Nemmeno la GPDA, la stessa associazione che avrebbe fatto di tutto per evitare una nuova tragedia come quella di Bandini a Monaco, la prese alla leggera, mettendo sotto la lente d’ingrandimento l’italiano per il suo comportamento in pista.
Bandini si difese con fermezza alle accuse, anche sulle righe di giornali italiani come La Stampa.
“The Dark Side of The Moon”, il lato oscuro di Bandini, per alcuni potrebbe significare gettare ingiusto fango sulla figura di un campione del nostro paese, ma invece semplicemente completa la figura leggendaria del pilota romagnolo, come di qualsiasi altro pilota di livello (indipendentemente dalle fortune, dai successi o dalle sventure): la fame di successo e la sfrontatezza.
Ayrton Senna non sarebbe Ayrton Senna senza Suzuka 1990, Alain Prost non sarebbe Alain Prost senza Suzuka 1989, Michael Schumacher non sarebbe Michael Schumacher senza Jerez 1997, Fernando Alonso non sarebbe Fernando Alonso senza Budapest 2007, e così via. È quello che fanno i purosangue, attirare su di sé le attenzioni del pubblico, perché sono dei fenomeni e compiono azioni fenomenali, anche se a volte in senso negativo. Bandini non era diverso, ed in fondo il Motorsport piace per questo motivo.
Si dice spesso che “la morte rende belli” e forse per Lorenzo è stato così, ma al tempo stesso “non ti rende un fenomeno”: lui non aveva bisogno di diventarlo, lo era già.