Il prossimo 3 febbraio gli USA si fermeranno: è il giorno del Super Bowl, l’evento sportivo più seguito d’America, con punte di telespettatori che superano i centocinquanta milioni.
Dal 1993, a rendere ancora più spettacolare l’evento, a metà partita compare un palco al centro del campo da gioco, e per tredici minuti un artista di livello internazionale si esibisce, cercando nel poco tempo a disposizione di presentare tutto il meglio del suo repertorio. In realtà, già prima del 1993 era previsto il concerto di metà partita, ma prima di quella data era riservato a band emergenti od universitarie, che avevano l’occasione della vita e davano il meglio di loro stessi per impressionare i tanti americani presenti allo stadio e i tantissimi che seguivano l’evento in tv. Dal 1993 però tutto cambiò: gli organizzatori riuscirono ad ingaggiare Michael Jackson, e quei tredici minuti di concerto divennero i più bramati da tutti gli artisti del mondo.
Negli anni su quel palco si sono succeduti cantanti come U2 (2002), Prince (2007), Bruce Springsteen (2009) e Lady Gaga (2017), solo per citarne alcuni. Si può tranquillamente affermare che ogni artista che canta in lingua inglese spera nella chiamata degli organizzatori, considerando il palco del Super Bowl la vera incoronazione della propria carriera.
Quest’anno toccherà ai Maroon 5. Gli organizzatori sono arrivati al gruppo di Adam Levine dopo aver ricevuto risposta negativa da Rihanna e da Pink. Risposta negativa? Ma come è possibile? Non vi avevo appena scritto che ogni cantante attende la chiamata degli organizzatori come nessun’altra cosa al mondo? Era così. Già, era. Perché negli ultimi due anni qualcosa è cambiato e per la prima volta quest’anno, per il Super Bowl 2019, tantissimi artisti hanno iniziato a dire un secco no alla loro partecipazione all’evento. Dopo Rihanna e Pink la lista dei No si è allungata, arrivando a comprendere tantissimi artisti tra i quali citiamo: Madonna, Coldplay, Who, Black Eyed Peas, Beyoncè, Lady Gaga e diversi altri meno conosciuti. Cos’è successo negli ultimi due anni per invertire così bruscamente la tendenza? Sono diminuiti i compensi? No. Più semplicemente, l’America si è riscoperta razzista. E a riscoprirla ha contribuito anche un giocatore di football americano. Per questo motivo il Super Bowl è diventato vetrina di protesta.
Un quarterback di “razza”
Colin Rand Kaepernick, nato il 3 novembre 1987 a Milwaukee, fu scelto nel 2011 durante il secondo giro del Draft NFL dai San Francisco 49ers. Fino a quel momento Colin aveva giocato solo per l’università, e quello con i 49ers fu il suo primo contratto da professionista. E anche l’ultimo. Ma lui ancora non lo poteva sapere.
Nel primo anno da professionista giocò appena tre partite, mentre nel 2012 il suo coinvolgimento all’interno della squadra aumentò vertiginosamente, complice anche l’infortunio di Alex Smith, quarterback titolare della squadra. Kaepernick si prese il posto da titolare e trascinò, a suon di passaggi decisivi, yard corse e qualche touchdown, i 49ers al Super Bowl del 3 febbraio 2013, perso per 34 a 31 contro i Baltimore Ravens.
Nelle stagioni successive la squadra di San Francisco non riuscì più a raggiungere il Super Bowl, ma il rendimento di Kaepernick continuò a crescere, tanto da farlo divenire un punto fermo della squadra.
A fine 2015 però, l’America cambia. Inizia la campagna elettorale per trovare il successore di Barack Obama e tra i repubblicani prende sempre più strada l’ipotesi di vedere come candidato alla Casa Bianca Donald J. Trump, che iniziò quasi per scherzo la sua corsa verso la presidenza del Paese. Il problema fu che ridendo e scherzando, tra una frase razzista verso un nero e qualche sputo d’odio verso un latino, Trump inizia a piacere sempre di più agli americani. Quella che sembrava solo una provocazione divenne una realtà: Donald J. Trump vince le primarie repubblicane e si appresta a sfidare Hillary Clinton per la presidenza.
Trump apre la strada al razzismo di Stato, rendendo frasi che fino a poco prima venivano considerate inaccettabili, facilmente digeribili alla società e alle più alte sfere politiche. Il tycoon trova l’appoggio di tutte le organizzazioni suprematiste bianche, che vedono in lui una “legalizzazione” delle loro posizioni estreme. Il Ku Klux Klan dichiara ufficialmente di appoggiare la corsa di Trump per la Casa Bianca, e la cosa invece di far perdere credibilità al magnate lo fa incredibilmente salire nei sondaggi. Nel 1915, quando il Ku Klux Klan venne rifondato, William Joseph Simmons (il fondatore del secondo capitolo del KKK), puntò sul fatto che i bianchi poveri vedevano nei neri e negli ebrei il nemico principale, tanto da considerarli il vero motivo della loro vita di stenti. Nel 2016 le cose non sembrano cambiate e i neri, assieme ai latini e agli asiatici, questa volta per Donald J. Trump, per Steve Bannon, per i suprematisti bianchi e a quanto pare anche per una buona parte di americani, sono la vera piaga degli Stati Uniti. Sono loro i colpevoli di tutto, sono loro che impediscono di fare di nuovo grande l’America.
L’8 novembre 2016 Donald J. Trump batte Hillary Clinton e viene eletto presidente degli Stati Uniti d’America. Ma in quella data le cose sono già cambiate, sia per gli USA che per il nostro Colin.
Kaepernick, già dall’agosto dello stesso anno, ha iniziato la sua forma di protesta non violenta: ogni volta che risuona l’inno americano, cosa che avviene prima di ogni partita di NFL, Colin non si alza in piedi. Anzi, Colin s’inginocchia. Le prime due volte nessuno sembra accorgersene, poi alla terza partita, inquadrato quasi casualmente dalle telecamere, il suo gesto viene ripreso e da quel momento nulla sarà come prima per il quarterback dei 49ers.
I giornali e le televisioni ne vogliono sapere subito di più, sicuri di avere in mano una notizia al vetriolo, una bomba pronta ad esplodere e a scatenare il dibattito pubblico per settimane o per mesi. Kaepernick non si tira indietro, e davanti ai microfoni spiega che il suo gesto era dovuto al fatto che “non mi sento di onorare un Paese in cui la minoranza nera è ancora oggi oppressa”, riferendosi alle varie uccisioni di neri americani da parte di agenti di polizia. In poche parole, Colin Kaepernick appoggia le proteste del movimento Black Lives Matters, tanto odiato da Trump e dalla destra estrema americana.
Black Lives Matter
Il Black Lives Matter viene fondato a metà luglio del 2013 dalla comunità afroamericana. L’intento principale è quello di contrastare il razzismo a livello socio-politico verso le persone di colore. Fattore scatenante della nascita del movimento per i diritti dei neri americani è l’assoluzione in formula piena di George Zimmermann, che nel febbraio 2012 aveva sparato a Trayvon Martin, diciassettenne afroamericano, che a causa dello sparo morì.
Nel 2014 poi, un anno dopo la nascita ufficiale del movimento, la situazione si fa ancora più seria: Michael Brown a Ferguson e Eric Garner a New York, vengono uccisi da agenti di polizia. In comune i due hanno l’essere afroamericani ed essere disarmati al momento dell’uccisione. Eric Garner, l’uccisione forse meno conosciuta delle due, morì per soffocamento mentre un agente lo teneva bloccato a terra impedendogli di respirare. 2014 abbiamo detto, quindi ancora sotto la presidenza Obama, il primo afroamericano ad aver guidato la prima potenza mondiale. Perciò possiamo affermare che sì, Trump ha sdoganato il razzismo di Stato, ma l’odio verso le minoranze parte da più lontano e solo in un secondo tempo convoglia nella figura del magnate dai capelli particolari.
A seguito di queste due uccisioni Black Lives Matter inizia a scendere in piazza con cadenza giornaliera, e nella città di Ferguson le manifestazioni di protesta fanno segnare numeri di partecipanti sempre più alti ogni giorno che passa. Sembra l’inizio della riscossa degli afroamericani. Sembra, però. Perché in realtà, da quel momento, chi inizierà a vedere di buon occhio il movimento è una percentuale di americani nettamente inferiore a quella che inizia ad appoggiare con sempre meno sensi di colpa tutti quei movimenti di suprematisti bianchi che formano il nuovo Ku Klux Klan. Ma esiste ancora, nel 2019, il Ku Klux Klan?
Breve storia del KKK
Il 6 dicembre del 1865, Abraham Lincoln sancì ufficialmente la fine della schiavitù. La cosa non piacque per nulla negli Stati del Sud e nello stesso anno prese vita, a Pulaski, Tennesse, il Ku Klux Klan. La data ufficiale della nascita del movimento è quella del 24 dicembre 1865, meno di venti giorni dopo l’annuncio della fine della schiavitù. A fondare il KKK furono reduci dell’esercito della Confederazione, cioè la fazione che perse la Guerra di secessione. Due anni dopo, nel 1867, a Nashville, si tenne il primo congresso del movimento, presieduto dal generale Nathan Bedford Forrest, che nell’occasione ottenne il titolo di “Grande Mago”. I punti fondamentali del manifesto dei suprematisti furono principalmente due: sostegno a vedove e orfani di guerra dei confederati e opposizione all’estensione del diritto di voto ai neri.
Il Klan partì subito forte, ma talmente tanto forte che due anni dopo, siamo nel 1869, Bedford decide di scioglierlo, in quanto ritenuta da lui, il Grande Mago, organizzazione ormai troppo violenta. Passarono altri due anni ed il presidente USA Ulysses Grant firmò il Klan Act, il decreto che metteva ufficialmente fuorilegge l’organizzazione, che da quel momento venne classificato come movimento terroristico. Dopo poco tempo la Corte Suprema dichiarò illegale il Klan Act, ma la convinzione generale, vista l’inattività dell’organizzazione, era quella di essersi messi ormai alle spalle questa brutta pagina di razzismo.
Non potevano però sapere che nel 1915, su idea di William Joseph Simmons, il KKK sarebbe stato rifondato. Come già accennato precedentemente, questa volta il Klan nacque sotto spinta populista, andando a soffiare sul fuoco del malcontento dei contadini e degli operai degli Stati del Sud, che vedevano nel nero e nell’ebreo il nemico numero uno e il responsabile unico delle loro povertà. Simmons altro non fece che incanalare questa rabbia nel movimento, con un’operazione che sarebbe presto stata ripresa in Italia, in Germania, in Spagna e che continua ancora al giorno d’oggi a dimostrarsi efficace.
Tra il 1923 e il 1924, accecati dalla luce di novità e machismo introdotte in Italia dal fascismo, in America prese piede la Black Legion, branca estrema del Ku Klux Klan, che proprio in onore di Mussolini e dei suoi seguaci decise di adottare uniformi del tutto nere. Obiettivi principali delle mattanze della Black Legion erano i socialisti e i comunisti, veri nemici della Patria, ma un occhio di riguardo la legione lo riservava anche ai cattolici, considerati asserviti al papa e perciò colpevoli di voler snaturalizzare la società e i valori americani.
Il secondo Ku Klux Klan collassò su sé stesso dopo che alcune delle sue figure più importanti rimasero coinvolte nello scandalo provocato dall’uccisione di Madge Oberholtzer. Molti dirigenti vennero accusati, e David Stephenson condannato, dell’uccisione della donna, il cui corpo venne ritrovato in condizioni raccapriccianti. La donna morì a seguito dei tantissimi morsi che subì mentre chi la morsicava abusava sessualmente di lei. I medici legali che si occuparono del caso dichiararono che la povera Magda sembrava fosse finita preda di un gruppo di cannibali. Nel 1944 si chiuse il secondo capitolo del Klan, ma fu una pausa breve. Giusto il tempo di concludere la Seconda guerra mondiale ed iniziare ad esportare un po’ di democrazia made in USA nel mondo che nel 1946 il KKK rivede la luce del sole.
Questa volta, per il terzo capitolo della sua storia, l’organizzazione nasce con una forma diversa da quelle fino a quel momento conosciute: non vi è più un solo Ku Klux Klan, ma tante organizzazioni indipendenti fra loro ma accomunate da idee di suprematismo bianco e di razzismo spiccio si fregiano del nome del Klan. Da quel momento, ricordiamo che siamo nel 1946, tutte le organizzazioni che si riconoscono nelle idee del Klan iniziano le loro personali battaglie contro l’emancipazione dei neri e delle altre minoranze americane, protestando con forza ad esempio contro il Civil Rights Act, che nel 1964 vieta la discriminazione negli alloggi pubblici, sul posto di lavoro e nei sindacati. Molti Stati si oppongono comunque all’attuazione del decreto, dimostrando ancora una volta quanto il razzismo sia in realtà insito nella società americana molto al di là del solo Ku Klux Klan.
A dimostrazione di quanto appena detto vi è ciò che accadde in Virginia nel 1967. Mildred e Richard Loving, una donna nera ed un uomo bianco, furono condannati ad un anno di carcere in seguito alla loro scelta di sposarsi. Per fortuna questa volta prende la parola la Corte Suprema, che invalida il verdetto della corte del Virginia.
Sembrano tutti fatti chiusi nel passato questi, un passato sì prossimo ma comunque passato. Ma purtroppo non è così. Il 2017, quindi due anni fa, è stato l’anno in cui i suprematisti bianchi hanno ucciso più volte negli ultimi vent’anni, rendendosi responsabili del 59% degli incidenti mortali violenti negli USA (dati The Post International), contro il 20% del 2016.
Nel marzo 2017, il suprematista bianco James Harris Jackson accoltellò a morte nelle strade di Manhattan l’afroamericano sessantaseienne Timothy Caughmann. Jackson era partito apposta dal Maryland per recarsi a New York ed uccidere uno o più afroamericani.
Due mesi dopo, a maggio, all’University of Maryland, Sean Urbanski, appartenente al gruppo ALT-REICHT NATION, pugnalò e uccise Richard W. Collins III, studente afroamericano.
Ad agosto dello stesso anno poi, forse il fatto più eclatante di tutti: a Charlottesville, Virginia, venne organizzata una grossa manifestazione che coinvolgeva tanti gruppi di suprematisti bianchi. La manifestazione, come spesso accade in questi casi, venne accompagnata da una contromanifestazione, nella quale attivisti per i diritti umani, persone di sinistra e semplici cittadini manifestavano il loro dissenso nei confronti della manifestazione razzista che si teneva dall’altro lato della strada. A fine manifestazione Alex Fields Jr., appartenente al gruppo suprematista Vanguard America, decide di mettere in moto la sua macchina e scagliarsi sui manifestanti della manifestazione opposta alla sua, provocando la morte della trentaduenne Heather Heyer.
Per darsi una parvenza di serietà ed istituzionalità, i suprematisti bianchi possono contare sul sostegno dell’Institute For Historical Rewiew, che ha la propria sede in California. L’obiettivo dell’istituto è quello di dare fondamenta storiche e lustro all’odio razziale, utilizzando per tale scopo toni accademici che, secondo loro, dovrebbero renderlo maggiormente credibile.
Ciò che maggiormente sconvolge è comunque un dato: al 2018 sono settantadue i gruppi attivi che si rifanno al Ku Klux Klan. Un numero che dovrebbe farci pensare.
La NFL prende posizione
Torniamo però al nostro Colin, lasciato molte righe fa in ginocchio durante l’inno americano.
Il suo gesto inizia ad essere condiviso ed imitato anche da altri suoi colleghi e da atleti di altre discipline, rendendo l’inginocchiarsi durante l’inno nazionale uno status symbol.
La situazione si fa talmente seria che la NFL capisce di dover far qualcosa. E in effetti qualcosa fa: niente. Anche il non fare niente in questi casi è una presa di posizione politica. Troppo rischioso appoggiare la protesta di Kaepernick e compagni, meglio far finta di nulla e vedere cosa succede.
Si arriva così a marzo 2017 e il contratto di Colin Kaepernick, uno dei più promettenti quarterback dell’intera NFL non viene rinnovato. In poche parole, i San Francisco 49ers scaricano Kaepernick.
Da quel momento Colin inizia a cercare una nuova squadra pronto ad accoglierlo, ma le settimane e i mesi passano e nessuno si fa vivo. L’ex quarterback dei 49ers si convince che vi sia una congiura contro di lui, che la sua persona venga osteggiata dalle dirigenze delle squadre della NFL in quanto scomoda per la sua attività politica a sostegno delle persone di colore e così, ad ottobre 2017, Kaepernick cita in giudizio l’intera lega, la NFL, ipotizzando un accordo tra i proprietari di tutte le squadre per impedirgli di giocare. La NFL ricorre all’arbitrato, ma nell’agosto 2018 il ricorso viene respinto e quindi il processo potrà prendere il via. Dovesse vincere Kaepernick la sentenza sarebbe storica, in quanto verrebbe acclarato che le squadre, in questo caso di football americano, anteporrebbero giudizi personali sulle scelte politiche dei giocatori alle loro capacità sportive.
Just do it
Kaepernick è tanto odiato dalla NFL quanto amato dalla comunità afroamericana e dalle persone che hanno a cuore i diritti umani. Se ne è accorta la Nike (che qualche macchia nel passato ce l’ha e quindi il percorso di pulizia di coscienza è e sarà ancora lungo ed articolato), che a settembre 2018, nonostante Colin Kaepernick sia senza squadra, lo ha scelto come testimonial della sua campagna pubblicitaria.
Il viso di Kap, così come viene chiamato l’ex 49ers, appare su sfondo nero e una scritta bianca, che nell’idea del pubblicitario pare dal quarterback pronunciata, recita: Believe in something. Even if it means sacrificing everything.
Credi in qualcosa. Anche se significasse sacrificare tutto il resto.
Di Davide Ravan
Fonti: (Marta Perroni-The Post International, Wikipedia, Anti Defamation League, Rockol, Tech Economy, Euronews).