Ode a Roberto. La neve da una porta aperta nel cielo

L’arte e il cuore. Fuori dipingeva, dentro lottava con sé stesso. Come un bambino che sogna in grande e vuole realizzare i suoi desideri.

Oggi pensavo a Roberto Baggio. Perché? C’è bisogno di un anniversario o una particolare ricorrenza per parlare di lui? No.

Non staremo qui a decantare le lodi, il pallone d’oro, il gol più bello o i successi. Che sono stati anche pochi per quello che la sua fulgida carriera avrebbe meritato. Baggio campione, Baggio uomo. E un esempio di come a volte l’uomo superi il campione. “Baggio Baggio”, come cantava Lucio Dalla. “Una nevicata che scende giù da una porta aperta nel cielo”.

Trovatemi qualcuno in grado di cambiar casacca così sovente, e trovare ammirazione dovunque. Trovatemi un uomo che senza essere un politico ha più elettori di un qualunque incravattato ciarlatano. L’uomo, dicevamo. Se abbiamo visto Baggio lo dobbiamo solo a Baggio. Da quell’infortunio del 1985 in Rimini-Vicenza, col ginocchio che salta e che non tornerà mai più come prima. L’attesa, la scoperta del buddismo a Firenze, dove la Fiorentina lo aspetta perché sa che quel giovanotto di Caldogno ne sa una più del Diavolo e soprattutto più degli altri che stanno sul verde prato. Roberto è l’incarnazione di un sogno ma anche di come combattere per realizzarlo.

È un uomo semplice divenuto supereroe per i ragazzini e gli adolescenti, me compreso, che se lo sono gustato dall’inizio alla fine. Roberto è l’esempio di come si deve continuare a picconare la roccia per trovare i diamanti, che se uno ci pensa, e si ferma prima, magari i diamanti erano proprio a due picconate di distanza.

Baggio uomo, Baggio tenero, Baggio fragile, Baggio umile. Come Baresi, come Scirea, come Di Bartolomei. Figli di un calcio che non c’è più dove non contava parlare troppo, come oggi, ma contava parlare al momento giusto. Un capitano, un condottiero, un leader, tace e macina, abbassa lo sguardo e diventa tigre nei 90 minuti tornando poi mansueto cucciolo per il resto della settimana. Così funzionava, e non la caciara odierna.

I più grandi così facevano, e per quello sono stati tali.

Baggio ha incasellato alla perfezione le tre peculiarità di De Gregori: coraggio, altruismo e fantasia. Coraggio a poggiare un’intera carriera su quelle gambe martoriate, perché lui aveva un sogno, un pezzo del quale colorato d’azzurro. Vedete forse oggi così grande attaccamento alla maglia nazionale? No proprio. Altruismo perché l’uomo Baggio aiuta i deboli e fa tonnellate di beneficenza non sponsorizzata. Lui amante dell’Argentina, della Pampa, di quelle battute di caccia che sono state sempre il suo rifugio, degli scherzi negli spogliatoi e nella vita, fatti e ricevuti.

Altruismo è stato circondarsi di altri prima ancora che in campo, quando vedeva il compagno meglio piazzato e lui sapeva che quel numero 10 gliela avrebbe messa proprio sul piede preferito senza margine d’errore. La fantasia, appunto. E poi c’è il rigore sbagliato, perché De Gregori va in soccorso pure del malcapitato vestito d’azzurro che tira alto a Pasadena.

Era Baggio e non sembrava manco lui. “Non ho mai calciato un rigore così, non so da dove mi è uscito”. Mani sui fianchi e testa abbassata a guardar per terra, come un bambino che è stato appena beccato a rubare le caramelle. L’Italia lo ha amato lo stesso. L’Italia oggi poco sognatrice e rintanata in difesa, che sta pensionando la figura del trequartista, avrebbe bisogno di un Baggio. Prima dell’uomo che del calciatore. Ma nel pandemonio social e nell’avanti e indietro delle immagini per vedere se il mignolo del difensore ha sfiorato lo stinco dell’attaccante, Baggio non sarebbe proprio a suo agio. Lui che ha preferito trascorrere il suo cinquantesimo compleanno a Norcia, coi terremotati.

Così scrivo mentre guardo fuori dalla finestra, e sta per arrivare l’inverno. Siamo prossimi al Natale, e magari alla neve. Che scenderà giù, da una porta aperta nel cielo.

A proposito di Stefano Ravaglia

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