Olimpiadi Parigi 2024: La nostra pallavolo sul tetto del mondo

Domenica 11 agosto 2024 è una data che resterà per sempre nella storia delle Olimpiadi: a Parigi il cielo è azzurro. A Parigi, tredici ragazze italiane toccano il cielo tingendolo d’oro. A Parigi, la nazionale di pallavolo femminile ritorna al suo posto. Eliminando ansie, pregiudizi, tensioni. Dando spazio alla fiducia, alla consapevolezza e alla gioia di un sogno diventato realtà.

“Qui e ora”. Fiato sospeso, occhi fissi sul punteggio, battito accelerato. Tutta colpa della coscienza: lei sa che manca poco, che quel momento tanto atteso è vicino e più possibile che mai. Manca solo un fischio, quello di un’azione finita, a favore di chi non vede l’ora di liberare la gioia in grida e lacrime.  

“Qui e ora”. Sono le 14:20 di una domenica che farà parlare. È l’11 agosto, e a Parigi, la nazionale femminile di pallavolo è a un passo dalla leggenda.  

“Qui e ora”. L’azione comincia. Italia contro Stati Uniti, ultimi istanti di un match 24 a 17. Possiamo chiudere. Il servizio americano, la ricezione imprecisa di Caterina, recuperata da Alessia che affida l’azione a Paola. Paola attacca, l’America difende, ricostruisce, attacca. Ed è fuori. È finita. È oro.  

È qui e oro”. Il boato sovrasta il campo, e l’emozione copre vincitori e vinti. Una piacevole confusione, il degno finale di un percorso impeccabile.  

Ma coperto dallo spessore della medaglia più importante c’è molto, molto altro.  

C’è il saluto a una strada impervia, ricca di ostacoli. C’è l’addio all’insicurezza, ai pregiudizi, alle tensioni. C’è la fiducia, c’è la squadra. C’è il fine quanto preciso lavoro di un uomo che è molto di più di un allenatore. Julio Velasco. 

Un nome che richiama palesemente le sue origini, quelle di un uomo che all’inizio degli anni Ottanta decise di lasciare un’Argentina piena del dramma dei “desaparecidos” che toccò anche la sua famiglia. Un uomo che, in Italia, ha portato una rivoluzione pacifica quanto radicale, riuscendo a cambiare la storia della pallavolo azzurra maschile e femminile per sempre. 

Che è riuscito, in poco tempo, a prendere le redini di una squadra dispersa nel buio per riportarla alla luce. Dietro al bagliore della medaglia d’oro, c’è a far timidamente capolino il talento di Paola Egonu. Discreto ma potente. Ritornato a brillare, più splendente che mai, dopo un tempo difficile fatto di stress e critiche, a causa di un sistema di gioco troppo polarizzato. Subito accanto, c’è l’amicizia. Quella che, per esempio, spinge due ragazze come Myriam Sylla e Anna Danesi, a scambiarsi le proprie medaglie sul podio, con gli occhi ludici. C’è la grinta, la determinazione. Ci sono gli abbracci, infiniti, cercati. Quelli di conforto, quelli che fanno respirare la felicità, quelli che parlano al posto delle voci. Quelli che dicono: “Ce l’abbiamo fatta, siamo state forti”.  

E poi c’è il sacrificio. Che esiste eccome, soprattutto quando dai tutto e fai tutto per realizzare un sogno.  

Esiste quando sin da piccolo ti innamori di uno sport che poi diventerà la tua vita. Esiste ad ogni allenamento, ad ogni preparazione ad una lunga stagione. Esiste ad ogni viaggio, ad ogni punto perso o conquistato. Esiste nelle vittorie sudate e nelle amare sconfitte. Esiste quando commetti un errore, quando non arrivi a recuperare un pallone, quando ti lanci tra le panchine per salvare un’azione che potrebbe essere decisiva.  

Il sacrificio si cela nelle urla per un punto conquistato, nelle discussioni con il proprio allenatore o con una tua compagna di squadra che, magari, ha pure il tuo stesso ruolo.  

C’è anche tutto questo dietro al peso della medaglia più preziosa. C’è un sogno che è stato realizzato. E che lascerà il segno, come quelle immagini di quei momenti finali che difficilmente riusciremo a smettere di riguardare.

A proposito di Beatrice Frangione

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