Perché Alessandro Del Piero è diventato Alessandro Del Piero

Alessandro Del Piero è quel timido bambino che, nel tema delle scuole elementari in cui gli venne chiesto “Che cosa vuoi fare da grande?”, per paura di esser sgridato dalla maestra rispose “Il camionista”.

E’ forse proprio in quel momento, in seguito a quella domanda, che Alessandro Del Piero è diventato Alessandro Del Piero.

Alessandro Del Piero nasce a Conegliano il 9 novembre 1974 da una piccola famiglia di umili lavoratori. Dopo una tranquilla infanzia, passata tra il campo parrocchiale di Saccon e la pallina di spugna da tirare tra le gambe della sedia nel soggiorno di casa sua, Alessandro, dai sette ai quattordici anni, milita nella squadra dilettantistica giovanile del San Vendemmiano, paesino distante poco meno di 3 km da casa sua. Nonostante la volontà materna di avere un figlio portiere, per il semplice motivo che ciò avrebbe comportato sudare meno, abbassando dunque il rischio di ammalarsi, Alessandro è da attaccante che mette in mostra le sue doti. Il sacerdote del paese, che fungeva allora anche da presidente e da allenatore della stessa squadra, parlò di questo ragazzo ad alcuni dirigenti del Padova che, vista l’esile struttura fisica del ragazzo, non ne furono convinti.

Nel 1992, dopo aver assistito ad un’amichevole voluta a tutti i costi da quello stesso sacerdote, contro la formazione giovanissimi del Padova, quegli stessi dirigenti ne rimasero sbalorditi e Alessandro venne subito acquistato.

Dopo un campionato di livello nel settore giovanile del Padova, il Del Piero esordì il 15 marzo 1992, alla tenera età di 17 anni, in Serie B, sotto la guida di Bruno Mazzia subentrando a Roberto Putelli durante la gara contro il Messina. E’ il 22 novembre dello stesso anno che realizza la sua prima rete da professionista, nel largo 5-0 a favore della squadra biancoscudata ai danni della Ternana.

Nell’estate del 1993, grazie alla lungimiranza dell’allora presidente bianconero Giampiero Boniperti, venne acquistato dalla Juventus che sborsò al Padova cinque miliardi delle vecchie lire per assicurarsene le prestazioni. Alessandro, firmando il suo primo contratto da professionista, realizzò due sogni in un colpo solo: il primo, quello di diventare un calciatore; il secondo, di giocare nella sua squadra del cuore.

In quanti si sarebbero aspettati, al momento di quella firma, che Alessandro Del Piero sarebbe poi diventato l’Alessandro Del Piero che ogni tifoso juventino porterà inevitabilmente dentro per il resto della vita?

Se penso ad Alessandro Del Piero, penso un po’ a mio padre figlio di mio nonno, o a me, figlio di mio padre. Un figlio, per restare nella correttezza giuridica però, “illegittimo”. Le virgolette con cui intrappolo la parola “illegittimo”, le utilizzo come mezzo per cogliere e moderare parte del significato di questo termine. La parte che ahimè sono costretto a conservare è quella che il vocabolario italiano indica come un qualcosa di non riconosciuto, di non valido per la legge. D’altro canto però, moralmente ed eticamente parlando, ho la possibilità di dimostrare la legittimità di questo rapporto. Viene subito alla memoria:

-Il goal all’esordio in Serie A contro la Reggiana;

-Il tocco morbido ma letale con cui abbatte la Fiorentina all’ultimo minuto;

-Il marchio di fabbrica affibbiatogli successivamente alla trasferta del Westfalen Stadion di Dortmund nel 1995, “il goal alla Del Piero” (Ale che parte dal vertice sinistro dell’aria e poi una, due, tre finte e il colpo sotto che parte come un arcobaleno dai suoi piedi per andare ad accarezzare la rete dalla parte opposta della porta);

-Il goal nella finale di coppa intercontinentale del 1996;

-Il goal su punizione al Real Madrid;

-Il magico goal di tacco nella finale di Coppa dei Campioni contro il Borussia Dortmund;

-Il Mondiale in Giappone e il goal al Messico;

-Il goal di tacco nel derby;

-Il goal su azione in semifinale di Coppa dei Campioni contro il Real Madrid;

-L’assist in rovesciata per il goal di Trezeguet contro il Milan;

-Il superamento del record di Boniperti;

-Il goal su punizione a San Siro contro l’Inter;

-Il goal in semifinale, ancora al Westfalen Stadion contro la Germania, nel Mondiale del 2006;

-Il rigore trasformato in quello stesso mondiale in finale, contro la Francia;

-Il titolo Mondiale conquistato;

-La Linguaccia.

E ancora:

-Il clamoroso goal su punizione da 38 metri allo Zenit;

-Il goal su azione al Real Madrid a Torino;

-Il goal su punizione alla Roma;

-La doppietta al Real Madrid in Spagna, la Standing Ovation del Santìago Bernabeu;

-Il goal n. 249 realizzato su punizione contro il Chievo Verona, il giorno del suo compleanno, la Standing Ovation del Marcantonio Bentegodi;

-Il rigore realizzato a cuore aperto contro il Chelsea;

-Il primo e meraviglioso goal nel nuovo stadio in Coppa Italia contro la Roma;

-Il goal su punizione da distanza proibitiva contro la Lazio, all’ultimo respiro;

-Il goal in quella che è stata forse la sua ultima e decisiva partita con la casacca bianconera, contro l’Inter.

Qualcuno potrà anche dire che Alessandro Del Piero era pagato per far goal. Un mestiere è un mestiere.

Voglio allora parlare dell’Alessandro Del Piero uomo.

Al dì là dei numeri e dei gol, ricordo:

-La compostezza dinanzi le pelose accuse di Zeman in seguito alla straordinaria stagione 97-98;

-Il silenzio e i colpi da campione in risposta a certi sciacallaggi della stampa;

-Il grave infortunio di Udine al ginocchio nel 98’, la Juve fino a quel momento prima in classifica, sprofonderà giù, chiudendo il campionato al settimo posto in classifica;

-L’operazione in Colorado, la sofferenza, la speranza, la fisioterapia, la Juve sempre più giù;

-Il rischio di non esser più quello di prima;

-Il recupero. Il ritorno con goal nel trofeo Berlusconi, i goal in coppa Intertoto, il goal su azione contro il Parma e finalmente la Juventus rialza la testa;

-Poi Perugia. L’infangato campionato del 2000, il poco navigabile Stadio Renato Curi di Perugia che costò il definitivo sorpasso della Lazio, mai una polemica, mai una parola fuori posto;

-L’immeritata panchina agli Europei del 2000, gli scampoli di partita concessi come contentino, i clamorosi errori in finale contro la Francia, l’ammissione di colpa;

-Il dolore per la terribile perdita del padre, il senso di responsabilità, la voglia di esserci comunque cinque giorni dopo a Bari. L’importanza della partita e la panchina. L’ingresso in campo al 18’ minuto del secondo tempo. Un urlo liberatorio e poi quella corsa a perdi fiato nella quale non è difficile notare la sofferenza di un uomo. E’ Alex a siglare il goal partita a dieci minuti dal termine. Dopo aver lasciato sul posto con un doppio passo Neqrouz, si presenta difronte il portiere avversario e, con un morbido colpo sotto partito dal piede debole, consegna l’importantissima vittoria alla Juventus;

-Le continue provocazioni di Capello, il feeling mai nato, le ripetute panchine, ancora silenzio e goal, in risposta. Saranno “solo” 17 goal in quella stagione di alti e bassi;

-La panchina accettata senza polemiche a Germania 2006, la linguaccia, in risposta alle critiche nello 0-2 rifilato alla Germania a Dortmund;

-Poi il nulla, il vuoto, l’unica cosa percettibile era il baratro che si era toccato. La retrocessione in Serie B, con 17 punti di penalizzazione. Un fulmine a ciel sereno. Indagini, intercettazioni, la polveriera in cui si trasformò lo spogliatoio, il suo diventare un supermarket. Avanti e dietro di giocatori, dirigenti indagati, squalificati, cambio di gestione, via tutto.

Ma Alex no. Alex resta, come ogni buon figlio farebbe di fronte ad un dramma familiare.

Real Madrid e Manchester United incassano il “no” del capitano bianconero.

Dio quanto ti ho amato in quel momento Alex.

L’audacia nell’affrontare poi il campionato di Serie B, l’umiltà nel farlo, la persistenza che ha portato poi al titolo di capocannoniere della serie cadetta. La sofferenza ma, finalmente, il ritorno sui grandi palcoscenici. Il ritorno in Serie A con conseguente titolo di capocannoniere.Il ritorno in Champions. E poi? Dopo tutto ciò, esser cacciato in malo modo l’anno della rivalsa, l’anno dello scudetto dopo la bufera, l’anno di un Antonio Conte osannato fino al midollo, lo stesso Antonio Conte che ha sempre affermato la sua juventinità e che, a distanza di anni e di fronte ad uno stipendio faraonico, non ha perso tempo nell’accasarsi con i rivali di una vita.

Il silenzio.

La partita d’addio è uno strazio. Sorrisi, emozioni, famiglie accorse allo stadio e non per l’ultimo saluto. Il goal. Il boato che si alza dagli spalti cita un solo nome. La consapevolezza di ciò che accadrà, e di qualcosa che i più credevano non potesse mai succedere, inizia a prender forma quando dalla panchina si alza un altro attaccante, Simone Pepe. Dopo lunghi minuti di incredulità, il momento dell’addio è arrivato. Il tabellone delle sostituzioni segna in rosso il numero 10. Una nuvola di dolore avvolge l’intero stadio, compagni e avversari si stringono attorno a lui per ripararne le lacrime che inevitabilmente cadranno. Il saluto composto, la standing ovation, l’amaro sorriso sul suo volto, forzato. Poi il segno di vittoria mostrato alla tribuna.

Il triste epilogo.

Dritto in panchina, non passa inosservato il mancato saluto ad Antonio Conte.

Ma la gente non ci sta e invoca ancora lui, la partita passa in secondo piano.

“Un capitano, c’è solo un capitano”.

Un’ennesima lacrima di cemento riga il suo viso.

L’eleganza non si acquista al supermercato, e la sobrietà dell’ultimo giro di campo percorso ne è la dimostrazione. I nonni stringono i nipoti per consolare un dolore precoce e ingiusto, simbolo di ciò che ha rappresentato questo giocatore per un intero popolo, per almeno tre generazioni di tifosi.

Lo Juventus Stadium è travolto da un’ondata di dispiacere.

Il 13 maggio rappresenterà da quel momento, per ogni juventino, la perdita di un amore.

Sensibilità, rabbia, classe e fascia di capitano: coppa al cielo, la Juventus è di nuovo campione d’Italia.

35 anni dopo, con qualche capello bianco in più, e con “qualche” trofeo in bacheca non da niente, la consapevolezza che quel desiderio, inimmaginabile, si è fortunatamente avverato.

La maestra capirà se ora gli dirai che:

“Da grande voglio fare il calciatore!”

 

di Oriolo Demetrio.

A proposito di Demetrio Oriolo

Durante il percorso di formazione classica ho sviluppato l'interesse per il giornalismo. Mi sono immerso nel mondo dell'informazione nel 2016, prendendo parte ad alcuni progetti in via di sviluppo, salvo poi continuare questo percorso di formazione e di crescita lavorando per prestigiosi progetti quali "Il Calcio Calabrese", "Calciomercato Report", "La Politica del Popolo" e "Calciatori Ignoranti". Sono uno dei fondatori del blog "Carpe Ideam". Nel corso degli anni ho collaborato con le testate "La Notizia Sportiva", "Pianeta Serie B" e "Calabria Live" e con il blog "Pianeta Champions" nel ruolo di editorialista. Vanto diverse pubblicazioni con "Il Quotidiano del Sud".

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