Lo sport è umano: non ha candidi supereroi che si sacrificano anima e corpo per qualche principio etico, per presunti valori di squadra e appartenenze a colori. Bubka e Pantani facevano uso di doping, Coppi di eccitanti; le bandiere che cambiano casacca si sprecano; la lista di sportivi che hanno ucciso, rubato e commesso altri reati è più lunga di quanto si possa immaginare.
Tutti i simboli, le frasi retoriche e i modelli che hanno nel tempo caratterizzato la cronaca sportiva sono stati capaci di creare un’ampia letteratura fantasy su un fenomeno umano, hanno trasformato i quotidiani in Bibbia.
Tuttavia, lo sport non può prescindere dall’essere umano con i suoi vizi, i suoi errori e le sue debolezze. Le dipendenze di Best, Maradona e Gascoigne; i raptus violenti di Tyson rimangono fra i più celebri sgambetti alla retorica. Questi però sono campioni che hanno lasciato il segno, che hanno avuto spunti prestazionali fuori dal comune. Dunque, mal si prestano a evidenziare l’essenza terrena dello sportivo. Una delle storie che invece racconta il modello umano senza il pericolo di illudersi con qualche dettaglio sublime è quella di Peter Storey, mediano inglese degli anni settanta.
Dai campi del Surrey a Highbury
La Seconda Guerra Mondiale è appena terminata, l’Inghilterra – rasa al suolo dall’aviazione tedesca – è un Paese che conta le sue vittime prima di poter essere riscostruito. Proprio un manovale e una commessa di negozio part-time danno alla luce il 7 settembre del 1945 uno dei centrocampisti più duri di quella generazione. Storey nasce a Farnham, una cittadina del Surrey, nel sud dell’isola. Accompagna il fratello allo stadio per vedere gli incontri dell’Aldershot, ma si innamora fin da bambino dell’Arsenal, la squadra più importante in cui militerà.
Nel 1961, sedicenne, firma un contratto da apprendista proprio per i Gunners. Si concentra sulla carriera, gioca qualche partita nelle giovanili, evita i pub e in night di Londra e l’anno successivo si ritrova in mano il primo ingaggio da professionista. Non per la prima squadra, ma per la terza, quella che compete per il torneo metropolitano. Il suo debutto fra i grandi della prima divisione deve attendere altre tre stagioni. È il 1965, e mentre fuori dagli stadi incomincia a respirarsi l’aria frizzante dei cambiamenti socio-culturali, a Leicester la squadra di Londra colleziona l’ennesima sconfitta stagionale. Storey è fra i pochi che si salvano quel giorno.
La carriera da professionista
Nella stagione 1966/67 il ragazzino ormai ventunenne è fisso in prima squadra e le sue caratteristiche non devono attendere molto per attirare l’attenzione della stampa. Storey gioca davanti alla difesa, non in maniera creativa, senza ambizioni particolari, esattamente come vuole il copione del mediano dell’epoca. Corre, fa a spallate e lascia i tacchetti qua e là sulle gambe degli avversari. Insomma, è consapevole di non avere buone doti tecniche, di doversi ammazzare di fatica per giocare a calcio in quelle categorie. D’altro canto, molti suoi compagni sono di un livello ancor più scadente e in quegli anni i Gunners lottano per non retrocedere.
Il primo trofeo arriva solo nel 1970, Storey è ormai una pedina principale della squadra. L’Arsenal si aggiudica la Coppa delle Fiere, probabilmente uno dei trofei più romantici della storia del calcio – istituita con lo scopo di garantire introiti alle principali città industriali europee distrutte dalla guerra. L’anno successivo, il centrocampista raggiunge il punto più alto della sua carriera aiutando la squadra a vincere il titolo di prima divisione e la FA Cup. Da lì in poi niente più trofei fino al trasferimento verso il Fulham nel 1977 e il definitivo addio al calcio dopo sole 17 partite. I numeri che descrivono la lunga militanza di Peter Storey sono senza infamia e senza lode: oltre 400 partite, 11 gol e, tutto sommato, pochi cartellini per il tipo di gioco a cui era abituato. Compaiono a referto anche una ventina di partite con la nazionale maggiore, anche queste passate più o meno sottotraccia.
Le donne
Se negli anni della ricostruzione, Storey avrebbe potuto ritenersi un privilegiato e il resto degli inglesi faticava anche solo per mangiare, l’euforia dei 70’s metteva a serio rischio la professionalità dei calciatori. Ragazzi abituati a regimi di vita quasi militareschi, ma con il conto in banca ben più sostanzioso dei loro coetanei (sebbene non ci fosse ancora il gap di oggi). Allora finisce che un bambino del Surrey, cresciuto nel fango e nel sudore mentre i suoi compagni si divertivano a giocare con la palla, strabuzza gli occhi di fronte alle opportunità che Londra gli para di fronte. All’operaio che deve fare di necessità virtù sui campi da calcio, si oppone un essere umano che cerca di divorare il tempo fra nightclub, donne e spericolati tentativi di trasgredire la legge.
La vita di Storey al di fuori del mondo pallonaro è senz’altro più entusiasmante di quella professionale. Il primo matrimonio, nel 1969, è con una certa Susan. La lunga convivenza, addirittura sei mesi, s’interrompe per il poco affetto dimostrato dal mediano. L’anno successivo al definitivo divorzio, nel 1972, ufficializza il fidanzamento con la coniglietta di Playboy Cathy McDonald. I due si sposano nel 1975, la figlia Natalie arriverà qualche mese più tardi. La fine della carriera calcistica, lo catapulta in una nuova realtà e, ovviamente, verso una nuova donna. Nel 1981 sposa Gill da cui avrà tre figli prima di rompere sulla fine degli anni ottanta. Si accasa di nuovo, la fortunata Daniele Scorcelletti. Divorzia di nuovo, torna da Gill, la lascia, ritorna da Daniele. Donne, matrimoni, figli e separazioni hanno il loro costo, ma non sono queste le vere spese di Storey.
I problemi con la legge
Il centrocampista dell’Arsenal è, infatti, uno degli sportivi con la fedina penale più ricca di dettagli. Tutti reati truffaldini che possono anche strappare un sorriso, sia ben inteso: niente percosse e aggressioni, niente assassini, nemmeno la classica evasione fiscale del personaggio pubblico medio. A dirla tutta, Storey cercò in qualche modo di pagare vizi e divorzi restando nei limiti della legalità: divenne proprietario del Jolly Farmers pub, una delle ragioni della rottura con Cathy e con l’Arsenal, e investì in una società di taxi rapidamente fallita.
Il primo reato è legato ai fratelli Barry, criminali comuni piuttosto conosciuti nei quartieri meno opportuni della capitale. Il calciatore, più o meno consciamente, finanziò la loro attività di contraffazione del denaro. Un piccolo extra che in pochi mesi finì per trascinarlo davanti alla corte. Con gli alimenti da pagare e un processo alle porte, le casse si stavano svuotando rapidamente. Invece di trovare un modo per pagare i debiti, Storey opta per la fuga verso la Spagna. Il problema a quel punto è che gli servono molti soldi per permettersi lo stile di vita a cui era abituato e per oliare i meccanismi della latitanza. La svolta creativa come imprenditore arriva nel 1979, con l’apertura del Calypso Massage Parlour nell’area di Leyton, nord-est di Londra. La passione viscerale per le donne e la vita notturna non poteva che portare la sua carriera criminale verso la proprietà di un bordello. Camilla e Lulu, due ventenni, gestiscono i clienti in tutta autonomia: un pacchetto completo che va dal massaggio fino al rapporto sessuale. Nella casa d’appuntamento non mancava lo spirito innovativo: la sperimentazione verso le tendenze bondange poteva definirsi pioneristica.
Per la contraffazione di soldi e il giro di prostituzione, Storey venne condannato a tre anni di carcere, una multa di 700 sterline e la sospensione del cartellino da calciatore per sei mesi. Arrivato al termine della carriera e scontata la pena. A questi reati si andarono a sommare il furto d’auto, l’importazione di materiale pornografico e una condanna per disordine pubblico. In tutto, altri due anni nelle carceri di Sua Maestà. Commesso, tassista, parrucchiere a Instanbul: dopo più di vent’anni sui campi e un discreto numero di presenze nelle carceri di Wandsworth e Spring Hill, il mediano del Surrey ha cercato di ricostruire la sua vita ripartendo dalla working class a cui non ha mai smesso di appartenere.
Storey sei e Storey rimarrai
Peter Storey rappresenta al meglio il modello umano dello sportivo perché la sua carriera è ripulita da qualsiasi elemento di genialità, da qualsiasi gesto eccezionale che ci potrebbe far credere il contrario. Storey non ha mai calciato parabole che sfidano le leggi della fisica, non ha mai danzato sulla palla inafferrabile, non ha mai rovesciato una difesa come un Dio onnipotente.
Nella sua vita privata, non è mai stato l’asceta del talk show da cui distillare le parole, non è mai stato testimone di valori nelle raccolte fondi, non è stato il marchio di un’azienda di successo. Storey è stato una cosa brutta da vedere, un cane attaccato alle gambe di altri calciatori più dotati. La quotidianità l’ha vissuta come molti arricchiti della sua generazione che come lui sono ripiombati da dove erano venuti. Storey ci restituisce lo sport e lo rende avvicinabile a chiunque.