River-Boca ’68: cinquant’anni fa la tragedia dimenticata della “Puerta 12”

1968: 71 morti, tutti sotto i 20 anni. Il “Superclasico” si trasforma in tragedia. Ma l’Argentina, come al solito, è in tumulto, e forse non fu colpa dei tifosi

 

di Stefano Ravaglia

 

C’è il settore “Z” dell’Heysel, Bruxelles. C’è il “Gate C” di Hillsborough, Sheffield. E c’è anche la “Puerta 12”. Un numero che dalle parti di Buenos Aires, così come in tutto il linguaggio codificato del football, è “il dodicesimo uomo”. La Doce, come gli Xeneisez, i genovesi del Boca, chiamano la loro hinchada. A novembre arriva il vero e proprio autunno, ma quest’anno sarà un mese caldo: Boca Juniors e River Plate si sfideranno, prima volta in 113 anni, nella finalissima della Libertadores. E quel numero 12 verrà riscoperto anche per qualcosa di molto lugubre e toccante accaduto quando nel mondo si risvegliavano coscienze e i giovani uscivano allo scoperto, in contestazione. Protagonisti, loro malgrado, sempre i tifosi. Ma il 23 giugno del 1968, mentre in Argentina è pieno inverno, 71 di loro, tutti del Boca Juniors, troveranno la morte al “Monumental”, la casa dei “Milionarios”. L’ennesimo Superclasico si sta concludendo, e i tifosi sciamano dallo stadio a una decina di minuti dalla fine. L’uscita però, è una trappola in piena regola: una scalinata sormontata ai lati dal muro, e di fronte una sorta di varco stile garage. Quando veniva chiusa, si tirava addirittura una saracinesca.

I tifosi non possono uscire, non certo perché la saracinesca è abbassata, ma molto probabilmente, in quei tumultuosi anni in cui un golpe aveva rimosso il peronismo e portato al potere la dittatura militare di Juan Carlos Ongania e la violenza era quasi una regola (durante la partita c’era chi rovesciava urina al settore sottostante e c’erano stati scontri, razzi e disordini) per mano delle cattive maniere della polizia, che impedì ai tifosi di uscire. Dalla porta 13, quella accanto, un testimone ha ricordato: “Ero con mio cugino, e una volta uscito dalla porta 13 guardavi verso l’uscita accanto alla nostra: c’era polizia a cavallo che impediva ai tifosi di uscire. Erano anni di violenza e repressione”. La calca aumentò e la pressione uccise per soffocamento quel gran numero di giovani tifosi, oltre a provocare 113 feriti.

Il diario argentino “Clarin” nel 2000 ha intervistato uno dei sopravvissuti, Miguel Durrieu: “Non ho mai saputo quale sia stata la ragione della tragedia. All’inizio era come una specie di valanga, che a un tratto si fermò. Iniziammo a essere schiacciati l’un con l’altro senza poter respirare. C’era gente che gridava, molto panico e molta paura. Non riuscivamo a respirare dalla pressione. Io avevo 14 anni, ero uno dei più giovani, ma lì eravamo tutti giovanissimi. Perché mi sono salvato? Perché qualcuno mi ha aiutato, o forse perché ero in una posizione provvidenziale, in un angolo della scalinata. Non sono mai più andato a vedere il Boca Juniors di nuovo”.

Nel 2006, il regista Pablo Tesoriere, mise in piedi un documentario su questi tragici fatti. Mai nessun responsabile è stato davvero individuato, e, come spesso accade quando si vuol far finta che non sia successo nulla, quell’ingresso maledetto ha cambiato nome: non è più la “Puerta 12” ma l’ingresso “L”. L’ombra scura calata su quel disastroso capitolo del calcio argentino, è dimostrata dal fatto che proprio quest’anno, a cinquant’anni dalla tragedia, il Boca Juniors si è scusato per non aver ricordato a dovere tutti i caduti, impegnandosi a farlo d’ora in poi. All’epoca, subito dopo la tragedia, tutti i club argentini raccolsero circa 100.000 dollari, ovvero poco più di 1.400 a testa per ogni vittima da devolvere ai familiari. Una miseria. In cambio di tale somma, inoltre, venne chiesto uno squallido silenzio. Solo due familiari portarono avanti una causa contro il River, che fu costretto a sborsare 50.000 dollari a causa della sua responsabilità civile.

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