Storie Mondiali, Argentina–Olanda 1978: quando un palo può costare vite umane

Domanda: un palo metallico può costare delle vite umane? Sì e no: dipende da vari fattori, quali il luogo, il momento e il contesto. Questi fattori sono i seguenti: Estadio Monumental di Buenos Aires, domenica 25 giugno 1978, 91′ minuto della finale del Campionato Mondiale di calcio.

di Giuseppe Livraghi

Appunto in quel momento potrebbe aver luogo l’evento grazie al quale possono essere evitate altre morti, invece il fato decide il contrario. Ma andiamo con ordine. In quel giorno del 1978 si disputa la finale del Campionato Mondiale di calcio, che oppone l’Argentina padrona di casa all’Olanda, gli “arancioni” giunti per la seconda edizione di fila all’atto conclusivo, ancora opposti agli organizzatori del torneo.

I “tulipani” dei Paesi Bassi (poiché in realtà il Paese si chiama “Netherlands”, cioè “Paesi Bassi”, dei quali l’Olanda è sì una parte importante, ma solo -appunto- una parte) non sono più quelli del “calcio totale” di quattro anni prima: privi del “profeta del goal” Johan Cruijff (ritiratosi dal calcio giocato proprio al termine della stagione 1977-’78, al quale tornerà già nel 1979), gli arancioni sono comunque una buona squadra, che sopperisce alle difficoltà con un grande affiatamento e (se necessario) con tanto ardore agonistico. Già nella gara decisiva del girone di semifinale contro l’Italia, gli “olandesi” (chiamiamoli così per semplicità) riescono a ribaltare lo 0-1 mettendola sull’agonismo, venendo anche aiutati dalla fortuna, che fa sì che due conclusioni da fuori area (rispettivamente scagliate da Brandts e da Haan) s’infilino alle spalle del non del tutto incolpevole Dino Zoff, per il 2-1 finale.

Se gli olandesi possono ringraziare anche (ma non solo) una buona dose di fortuna, gli argentini arrivano all’atto conclusivo per vie traverse: dopo aver concluso al secondo posto il girone valido quale primo turno (venendo sconfitti per 0-1 dall’Italia), i bianco-celesti giungono alla finale vincendo il loro gruppo della seconda fase solamente per la differenza reti nei confronti del Brasile, ma su tale “impresa” si posano molte ombre. In primis, gli argentini giocano la loro ultima partita del girone dopo la conclusione di quella dei brasiliani (vittoriosi per 3-1 sulla Polonia), sapendo già, quindi, il risultato necessario per accedere alla finalissima: un 4-0 ad un Perù già eliminato. La gara con i peruviani termina addirittura 6-0 e tanti sospettano che tale successo sia stato “facilitato” (o quantomeno non ostacolato appieno) dal portiere peruviano Ramón Quiroga, che in realtà è un argentino naturalizzato peruviano, per di più nato proprio a Rosario, ossia dove va in scena Argentina-Perù. Non entriamo nel merito di ciò: semplicemente, segnaliamo che l’Argentina arriva in finale senza brillare.

L’Argentina padrona di casa, certo, ma quale casa? Il paese ove tuttora gran parte degli abitanti vanta orgogliosamente origini italiane è una dittatura militare (autodenominatasi “Processo di riorganizzazione nazionale”) dal 24 marzo 1976, quando un colpo di Stato ha messo fine al legittimamente eletto governo di Isabelita Perón: il potere è nelle mani della giunta militare presieduta dal generale Jorge Rafael Videla. La dittatura è destinata a passare alla storia come una delle più sanguinarie e crudeli dei tempi recenti, durante la quale i dissidenti (veri o presunti tali) sono rapiti, torturati, seviziati, umiliati ed assassinati dopo sommari processi (e, a volte, senza neppure quelli), per poi essere fatti sparire (i cosiddetti “desaparecidos”, cioè scomparsi), il più delle volte mediante i “voli della morte” (tramite i quali gli oppositori vengono gettati in mare). Quindi, è facile immaginare che una dittatura del genere pretenda assolutamente che la Nazionale faccia sua la Coppa, sia per orgoglio nazionalistico, sia per distogliere l’attenzione dalla tragica situazione interna (non facile anche a livello economico).

E qui arriviamo al palo metallico che può salvare delle vite, che abbiamo menzionato in apertura. La finale del Mondiale 1978 è sull’1-1, con gli olandesi che, per nulla intimoriti dal clima intimidatorio ed ostile venutosi a creare, hanno recuperato l’iniziale vantaggio argentino (firmato al 38′ dal capocannoniere Mario Kempes) grazie ad un acuto di “Dick” Nanninga all’82’; al 91′, però, su un lancio dalla trequarti difensiva, la sfera giunge a Rob Rensenbrink che, da posizione difficile ma non impossibile, anticipa l’uscita dell’estremo difensore locale Ubaldo Fillol, indirizzando il pallone verso la porta sguarnita: la palla, tuttavia, incoccia contro il palo, tornando poi in campo. I tempi regolamentari si chiudono, quindi, in parità: l’Argentina, tirato un sospiro di sollievo, fa poi sua la gara (e la Coppa) nei tempi supplementari, vincendo per 3-1. Il regime argentino ha, quindi, il trionfo che pretendeva, la gente festeggia per le strade, non sapendo che in quella stessa notte altri “desaparecidos” stanno per essere aggiunti alla già lunga lista.

(FILES) Photo taken on June 25, 1978 when Argentinian midfielder Mario Kempes (L) who had just scored his second goal celebrated in front of forward Daniel Bertoni and Dutch defenders Wim Suurbier (on ground) and Jan Poortvliet(facing camera) in Buenos Aires during the extra time period of the World Cup soccer final between Argentina and the Netherlands. AFP PHOTO (Photo credit should read STAFF/AFP/Getty Images)

È vero che coi “se” e coi “ma” non si fa la storia, ma è più che legittimo ipotizzare che se quel pallone calciato da Rensenbrink fosse terminato in rete, non avrebbe solamente significato un meritato trionfo olandese: avrebbe (fatto ben più importante) fatto “saltare” il piano del regime, dando quindi vigore agli oppositori. Un regime che, invece, resta ben saldo in sella fino all’inizio degli anni Ottanta, quando, nuovamente con lo scopo di distogliere l’attenzione dalla situazione interna e di cercare consenso (a fronte di una crisi economica devastante), porta l’Argentina alla guerra con il Regno Unito, per il possesso delle isole Falkland (che gli argentini chiamano Malvinas, cioè Malvine). Tuttavia, le Forze Armate argentine, tanto efficienti nell’opprimere civili inermi, si dimostrano incapaci al cospetto delle forze di Sua Maestà Britannica: la guerra, iniziata il 2 aprile 1982, termina il successivo 14 giugno con il pieno successo dei britannici, che riescono a difendere il loro possedimento d’Oltremare.

Ormai il regime è ai titoli di coda: Leopoldo Galtieri (subentrato a Carlos Lacoste il 22 dicembre 1981, a sua volta subentrato a Roberto Eduardo Viola l’11 dicembre 1981, a sua volta subentrato a Videla il 29 marzo dello stesso anno) è costretto a dimettersi, passando il potere ad Alfred Oscar Saint Jean, che resta in sella (ad interim) dal 18 giugno 1982 fino al successivo 1° luglio, quando lascia l’incarico a Reynaldo Bignone, il quale, pressato dalla crescente opposizione, è costretto ad indire libere elezioni, che hanno luogo il 10 dicembre 1983.

Dicembre 1983: sono trascorsi cinque anni e mezzo da quel palo colpito da Rensenbrink, cinque anni e mezzo nei quali, dopo quella di Videla, si susseguono altre cinque giunte militari (delle quali due ad interim), una guerra (quella delle Falkland-Malvinas) e una crisi economica drammatica. Nella guerra delle Falkland si contano 907 morti (649 militari argentini, 255 militari britannici e 3 civili falklandesi) e 1845 feriti (1068 militari argentini e 777 militari britannici). Morti e feriti che vanno ad aggiungersi alle 30mila persone (“desaparecidos”) uccise dal regime e alle 50mila illegalmente detenute durante la dittatura: non sembra illogico ipotizzare che se l’Olanda avesse vinto quella finale questi numeri sarebbero stati diversi, come non è sbagliato ipotizzare che, senza il prestigio (vero o presunto) derivante dal successo al Mondiale 1978, il regime avrebbe ceduto prima (il che avrebbe evitato altre morti). Di sicuro (o quasi) si sarebbe evitata la guerra delle Falkland.

Il calcio è solo un gioco? Può darsi, ma in questo caso è stato una drammatica cosa seria.

 

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