Tifare e soffrire. Niente coppe e scudetti, ma l’essenza del football in “Sunderland ‘till I die”. Su Netflix, la vita dietro le quinte del Sunderland in una annata sfortunata ma piena di significati.
di Stefano Ravaglia
Fino alla morte. Potrebbe essere uno scellerato motto da stadio, e in effetti è così, ma attenti, non prendetelo alla lettera. Nessun intento belligerante né guerrafondai in vista. “Sunderland till I die” è un canto d’amore. Disperato, in questo caso. La docu-fiction in otto puntate griffata Netflix (uscita sulla piattaforma il 14 dicembre e firmata dalla casa produttrice londinese Fulwell 73) fa entrare lo spettatore dentro la stagione 2017-18 dei Black Cats, la squadra che nel 1973 fu capace di battere il grande Leeds e vincere la FA Cup e che ora è appena retrocessa dalla Premier League. Allo Stadium of Light, una bella cornice inadatta alle serie inferiori, si consuma però un altro dramma: la squadra, nonostante la buona volontà, l’impegno, gli allenatori che si susseguono e una tifoseria straordinariamente innamorata, arriva ultima e retrocede addirittura in League One, la terza serie. Il dramma sportivo del Sunderland è raccontato dalle voci e dai volti dei diretti protagonisti: il direttore esecutivo Martin Bain, il manager Simon Grayson, che viene esonerato a beneficio di Chris Coleman, l’allenatore che aveva portato il Galles in semifinale agli Europei francesi e che entra in simbiosi con il club e tutto lo staff. Il quale è protagonista allo stesso modo: cuochi, camerieri, inservienti, collaboratori e soprattutto l’operoso team che si occupa della vendita dei biglietti. Tutti preoccupati per la situazione del club, i cui risultati sul campo si riflettono ovviamente sulla situazione economica. Che è latente: le cose non vanno, e a gennaio, i dirigenti sono alla disperata ricerca di un attaccante. Qualche nome pare vicinissimo, ma la trattativa salta puntualmente all’ultimo momento. Vediamo il club dietro le quinte, nelle stanze, negli uffici, nelle cucine, sui campi di allenamento. E nella sua agonia che pare non avere fine. Il travaglio del Sunderland ha un responsabile ben preciso: Ellis Short, uomo d’affari americano, proprietario del club sino all’aprile del 2018 e iper contestato dalla tifoseria, è paradossalmente l’unico personaggio che non compare direttamente. Ai tifosi viene data voce anche tramite la radio, e in molti sfoderano il loro grido di dolore: “Inutile pensare che il club debba tornare in alto se non si fanno investimenti”.
Da “Sunderland ‘till I die” emerge soprattutto, come detto, l’enorme attaccamento dei supporters. Nonostante diversi vuoti al “Light”, il docu-film si insinua dentro le vite di ognuno di loro. Chi non si perde una partita con l’abbonamento, chi si riunisce a casa con la famiglia davanti alla tv vestito di biancorosso, e persino un tifoso che ascolta una trasferta della squadra via radio, perché in Inghilterra non tutte le partite dei campionati sono trasmesse in tv. Quella dei tifosi del Sunderland è una storia nella storia, un legame col territorio e la città, con le gioie (poche) e i dolori (tanti). A un certo punto della stagione, i dirigenti incontrano il forum dei tifosi in un locale, chiedendo: “Che cosa volete che noi facessimo per migliorare le cose?”. Esempio di dialogo e di confronto, di considerazione per coloro che sono i veri proprietari del club. Nessuno dei presenti alza la voce, tutti esprimono il loro disappunto con una pinta di birra tra le mani. Immaginate cosa accadrebbe in altri paesi se si proponesse un “confronto” simile…
Con Coleman i Black Cats vincono due partite consecutive, e pare essere l’inizio della risalita. Non sarà così. Nelle otto puntate viene a galla tutto il sentimento di un tifoso, che vive alla giornata: un sabato speranzoso e orgoglioso, il sabato successivo disperato e con la voglia di mandare tutti a casa. Che è poi l’essenza del football. Uno sport di pancia, di emozione, di passione, dove sarebbe bene però ogni tanto ragionare con la testa, ma allora non sarebbe più calcio. Non spaventatevi: anche se abbiamo fatto un elenco di melanconiche disavventure, non significa che piangerete per otto puntate. Tutt’altro: a chi piace il calcio inglese e soprattutto quel senso di comunità, tradizione e rispetto che è un marchio di fabbrica dei britannici, “Sunderland ‘till I die” non se lo può proprio perdere. Perché in fondo, vada come vada, si resta sempre tifosi. Fino alla morte.