Israel Adriano Caetano dirige Balthazar Murillo nei panni del giovane Carlos Tevez. Tra sparatorie e delinquenza, la dura strada verso il sogno di fare il calciatore e l’esordio nel Boca Juniors
Una madre che lo abbandona anzitempo volendone poi rivendicare la proprietà, un padre ucciso quando ancora lui doveva nascere. E due zii: Adriana e Segundo, che lo fanno crescere come si deve in un mondo di delinquenza, sciatteria, sparatorie, droga e degrado e che lui chiamerà senza alcun problema “mamma” e “papà”.
E’ il ‘barrio’ Esercito delle Ande, altrimenti detto “Fuerte Apache” a Ciudadela, periferia di Buenos Aires. E’ la serie tv Netflix uscita nel 2019, “Apache”, prodotta da Torneos e racconta i primi diciotto anni di vita di Carlos Tevez, che ancora oggi milita nelle file degli Xeneizes, dove giocò nelle giovanili e in cui esordì come professionista nel 2002.
C’è ruvidità e durezza nelle otto puntate della serie in cui il buon Carlitos rincorre il suo sogno di diventare calciatore professionista. Di cognome fa Martinez, ma prende il nome dello zio Segundo, che insieme alla moglie Adriana lo cresce dopo l’abbandono della madre Fabiana.
Non si trascura ovviamente quella grande cicatrice sul collo: a pochi mesi di vita, si rovesciò un tegame d’acqua bollente rischiando la vita. Nel quartiere degradato e in mano alla criminalità sorto nel 1966 e alla periferia della capitale, tra i muri deturpati e le vie pericolose da frequentare alla sera, sorgono campetti da calcio che rappresentano un’ancora di salvezza. Carlos inizia a giocare tra le file del Santa Clara e dell’All Boys e dopo essere stato notato da un osservatore, entra nelle giovanili del Boca.
I suoi guai familiari si ripercuotono quando si tratta di presentare i documenti per entrare nel club: serve una firma della madre biologica e il certificato di morte del padre, ucciso in un bar per errore quando la moglie era ancora incinta. Sarà una battaglia dove oltre a dribblare gli avversari, il giovane Tevez dovrà farlo con le insidie di un quartiere che si poterà per sempre addosso, proprio con il soprannome “Apache”.
C’è tempo e spazio per l’amicizia con altri giovani che sognano il calcio ma che non avranno la stessa fortuna. Il ritratto di una gioventù bruciata da una terra maledetta dalla quale Tevez è riuscito a sfuggire. E proprio il vero Tevez concede trenta secondi di cammeo all’inizio di ogni puntata, raccontando sul serio che quando in quelle strade si giocava, a un certo punto partivano spari e bisognava correre a nascondersi. La serie è stata messa in piedi anche grazie alle sue decisive interviste e testimonianze.
Nel 2002, l’esordio al Boca, e il Tevez che conosciamo oggi. Ma “Apache” vi racconterà che l’essere calciatore milionario, in realtà ha un’origine tutta da scoprire.