Andriy Shevchenko è il primo rinforzo di punta del Milan campione d’Italia in carica. E’ il luglio del 1999. Inizia una storia destinata a divenire leggenda
di Stefano Ravaglia
Si narra che in uno dei suoi primi giorni a Milanello, concluso l’allenamento, si guardava intorno un po’ stranito. “Ma, quindi? Tutto qui? Abbiamo finito?”. Uno come lui, abituato ad allenarsi fino a vomitare nelle terrificanti sessioni del colonnello Lobanovski, aveva ancora molto da dare. Nel centro sportivo rossonero c’era arrivato per quarantuno miliardi, dalla Dinamo Kiev e anche grazie a una relazione del fido Balestra, osservatore e preparatore tecnico dei rossoneri che scriveva: “Non ci sono dubbi: è da Milan”, sottolineando anche la riga per essere ancora più chiaro. E da Milan lo è stato davvero Andriy Shevchenko da Dvirkivscyna, villaggio a 100 chilometri da Kiev, Ucraina, che si è preso il Milan per non mollarlo più anche quando deluse milioni di appassionati emigrando al Chelsea nel 2006.
Il 3-4-3 zaccheroniano che aveva permesso al Milan di cucirsi sul petto lo scudetto numero sedici seppur con un po’ di fortuna, si rifà il look con Sheva al centro dell’attacco e Weah che in gennaio lascia male il Milan dicendo che “Zaccheroni non è mio amico”: il ruolo di esterno proprio non gli si addiceva. Ma con un portento così in avanti e dopo quattro anni e mezzo straordinari del liberiano che aveva conquistato tutti con le sue movenze feline e i suoi gol impossibili, la successione divenne naturale.
In agosto Shevchenko segna subito a Lecce, regala perle incredibili nel 4-4 con la Lazio in ottobre in cui trascina praticamente da solo il Milan, segna il suo primo e fortunoso gol nel derby (sarà l’incubo dei nerazzurri: 15 reti), e segna un gol invece da antologia contro il Bari in febbraio, in un 4-1 a San Siro. Campeggia un due aste in curva, il “Re dell’Est”, e sovrano lo era davvero. Capocannoniere subito al primo anno, 24 reti come Van Basten dieci anni prima, stessa cifra messa in cascina anche nell’anno seguente. Timido, dall’italiano stentato e dal tenero sorriso, Shevchenko fa subito breccia nei cuori rossoneri per la sua semplicità e il suo devastante impatto in area ma soprattutto fuori, fungendo da raccordo e da spalla ideale per qualsiasi compagno.
Quando Ancelotti arriva sulla panchina del Milan nell’ottobre del 2001, tra infortuni e malumori il nostro non se la passa benissimo. Non riuscirà a mantenere le medie dei due anni precedenti (14 gol alla fine del 2001-02) e sfumerà anche la qualificazione al Mondiale con la sua Ucraina, che centrerà invece quattro anni dopo in Germania. Nel 2002-03 sono soltanto 5 i centri in serie A, ma in Europa c’è il suo timbro nella sesta Coppa dei Campioni del Milan. Nella finale di Manchester, prima l’urlo strozzato dopo una rete a Buffon annullata per fuorigioco e poi il rigore decisivo che scaccia via tutti gli incubi.
E Sheva riparte: 24 reti e altro titolo di capocannoniere nel 2003-04, con annesso diciottesimo scudetto del Milan. Buca tutti: Roma, Inter, Juventus e in estate segna una fantastica tripletta alla Lazio in Supercoppa Italiana. La sua timidezza si è un po’ diradata, fa scorrazzare per il campo una zazzera biondo oro e diventa anche padre: nello stesso anno conosce a una festa a Milano la modella Kristen Pazik e il 29 ottobre 2004 nasce il primogenito Jordan, al quale il neo papà dedica la rete a Marassi contro la Sampdoria poche ore dopo aver assistito al parto. Ne arriveranno altre tre, tutti maschi, garantendo ai suoi cromosomi di fuoriclasse un futuro speranzoso. Nel 2005, dopo una annata strepitosa, la notte di Istanbul lo inghiotte: il Liverpool rimonta e vince ai calci di rigore e l’errore decisivo è il suo. Uno scenario diametralmente opposto a quanto accaduto in Inghilterra due anni prima.
Il resto è un triste declino soprattutto mediatico: dopo un’altra eccellente stagione 2005-06, Silvio Berlusconi rivela a dei bambini di una scuola elementare in cui è in visita, che Shevchenko vuole andarsene dal Milan. “E’ la vittoria dell’inglese sull’italiano”, dice Galliani. La moglie, stavolta, forse, ha dettato legge e vuole andarsene da Milano. Forse la verità non si è mai saputa per intero, ma di certo non crediamo che Milano sia una città sprovvista di scuole d’inglese.
Il ritorno nel 2008 sarà incolore: due reti, una in Uefa e una in Coppa Italia e l’eclisse in panchina. Una storia così, meritava un altro finale. Ma 174 reti, che ne fanno il secondo miglior bomber rossonero della storia dietro solo a Nordhal (e fosse rimasto altri due o tre anni, sarebbe arrivato ancor più vicino), non si cancellano con un addio struggente. Lo cantava anche la curva sud: “Non è brasiliano però, che gol che fa.. il Fenomeno lascialo là, qui c’è Sheva”.